Ricerca

“SE QUESTO È UN UOMO” DI PRIMO LEVI E “L’INFERNO” DI DANTE A CONFRONTO

"SE QUESTO È UN UOMO" DI PRIMO LEVI E "L’INFERNO" DI DANTE A CONFRONTO

Utente RIIS00900X-psc

da Riis00900x-psc

0

“SE QUESTO È UN UOMO” DI PRIMO LEVI E “L’INFERNO” DI DANTE A CONFRONTO

 

Leggendo il libro del chimico, saggista, scrittore e testimone Primo Levi, ho da subito notato il tono privo di vittimismo, che esclude tutti i presupposti atti a suscitare commozione nel lettore. Ho altresì notato la sua estrema chiarezza, attraverso una scrittura rapida e snella, affinché il libro possa essere compreso da tutti: mi è anche giunto spontaneo pensare che questo giusto dosaggio degli elementi nella stesura del libro sia stata influenzata dalla ‘forma mentis’ dell’autore.

Dietro questa apparente semplicità di linguaggio, infatti, si cela una rielaborazione del dramma personale e storico di Levi, attraverso grandi modelli culturali, in particolare l’opera di Dante: con l’arrivo ad Auschwitz, l’autore comincia ad addentrarsi nell’Inferno.

Prima di giungere ad Auschwitz, Levi parla dell’attesa nel campo di raccolta di Fossoli, visto come una specie di limbo, in cui i prigionieri vivono “sanza ‘nfamia e sanza lodo” (Inferno, canto III, v. 33): viene descritto, infatti, come un vestibolo infernale sul quale, quando scese la notte “fu una notte tale che si conobbe, che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere (Se Questo È Un Uomo, cap. 1). Poi si arriva ad Auschwitz, arrivo simile a quello di Dante ma capovolto, poiché nell’Inferno Dante non si rapporta con l’orrore del male, bensì con la giustizia divina (“Per me si va nella città dolente/…/ giustizia mosse il mio alto fattore”, Inferno, canto III), mentre l’inferno del Lager, il cui cancello è sormontato da tre parole di derisione “ARBEIT MACH FREI” (“Il lavoro rende liberi”), rappresenta il mondo del caos e del nulla, un mondo che rimarrà enigmatico fino alla fine, o meglio “incomprensibile e folle” come lo definisce Levi, contrariamente all’Inferno dantesco, che sin da subito ammonisce (“Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”). Successivamente, i prigionieri vengono traghettati da un “soldato tedesco irto d’armi” che, anziché gridare “guai a voi, anime prave” (Inferno, canto III, v. 82), comanda cortesemente “ad uno ad uno in tedesco se abbiamo orologi o denaro da cedergli: tanto non dopo non ci servono più. Si vede bene che è un’iniziativa privata del nostro caronte”. È evidente la decisione di Levi di non attribuirgli la lettera maiuscola!

Il continuo parallelismo che caratterizza il racconto emerge anche nella selezione iniziale che decide chi viene sommerso e chi va salvato alla discesa dai vagoni: “Quanti anni? Sano o malato? E in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni, a cui corrisponde la figura Dantesca del canto V, Minosse che “esamina le colpe ne l’intrata, giudica e manda secondo ch’avvinghia” ma con una sostanziale differenza: Minosse ascoltava i peccati e prendeva una decisione, mentre nel Lager la scelta era rapida e sommaria e si faceva entrare in campo “quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano al gas gli altri” (Se Questo È Un Uomo, cit. 82).

Similmente ritroviamo in Levi la descrizione di Dante delle “orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ira, voci alte e fioche/…/facean un tumulto” (Inferno, canto III, v. 25-30), quando evidenzia il caos linguistico che caratterizzava il Lager, attraverso la descrizione dei mattoni (ripetuti in sette lingue diverse) che i prigionieri stessi hanno utilizzato per costruire la Torre del Carburo (Se Questo È Un Uomo, cit. 4, cap. 7). È ben noto l’arrivo al campo di prigionia, definito la giornata di “antinferno” e descritto nel capitolo II, “Sul Fondo”, il quale si dispone entro due constatazioni dantesche: la prima che apre la descrizione (“questo è l’inferno”): l’altra che conclude (“eccomi sul fondo”). “Fondo”, parola che nell’Inferno sta ad indicare il punto più basso dell’Inferno (“Ei son tra l’anime più nere; diverse colpe giù le grava al fondo”, Inferno, canto VI, v. 84). Interessante confronto è che mentre Dante quanto più s’innalza verso Dio, tanto più è privo di parole (“Nel ciel che più de la sua luce prende fu’ io, e vidi cose che ridire né sa, né può chi di lassù discende”, Paradiso, canto I, v. 4-6), Levi, contrariamente, ammutolisce quanto più sprofonda nel Male! (Se Questo È Un Uomo, cit. 122). Si vede che in entrambi i casi la perdita della parola corrisponde al raggiungimento della destinazione: per Dante l’Inferno è solo una tappa verso il Paradiso; per Levi Auschwitz è un inferno da cui non escono neppure i salvati. Queste ultime considerazioni si legano perfettamente ad un altro tema presente nell’opera di Levi: il viaggio.

Il viaggio di Dante risponde a un piano e a una logica divina, durante il quale incontra Ulisse (canto XVI) e ne descrive la traiettoria umana del suo ultimo viaggio. Nel canto XVI, Ulisse racconta la sua avventura, descrivendola come un ‘folle volo’, durante il quale confida solo sulle sue abilità e sul suo ingegno, a differenza di Dante, che si avvale essenzialmente della Provvidenza. Del resto, il viaggio di Dante rappresenta l’arrivo al Paradiso, un ritorno a casa; l’Ulisse dantesco è, invece, un esploratore mosso dalla sua sete di conoscenza alla ricerca dell’ignoto (“misi me per l’alto mare aperto”). Ulisse è simbolo dell’ansia di conoscenza dell’uomo, che lol spinge oltre i limiti posti da Dio: per questo motivo Dante vede in questo viaggio qualcosa di folle (de’ remi facemmo ali al folle volo”) e la sostanziale differenza per cui questi due viaggi ai distinguono è il fatto che Dante raggiunge la salvezza dell’anima, mentre Ulisse verrà inghiottito dalle tenebre infernali per aver violato la volontà di Dio.

Accanto a questi due viaggi c’è Primo Levi verso l’Anus Mundi, l’”abisso di malvagità”, un viaggio verso Auschwitz, un viaggio sul fondo dell’uomo. Un viaggio che Levi, a differenza di Dante, deve percorrere da solo sin dai primi incerti passi (“il funzionario che invece di prenderti per mano, insegnarti la strada, ti si avventa addosso e ti percuote sul viso” (Se Questo È Un Uomo, cap. 1). Durante il suo viaggio, Levi incontra Jean, il “Pikolo”, a cui “piace l’Italia e vorrebbe imparare l’italiano”, motivo per il quale Primo, nel capitolo “Il canto di Ulisse”, decide di insegnargli l’italiano durante il trasporto del rancio. In questo capitolo, Levi compie un folle volo: due prigionieri osano ragionare di “virtude e canoscenza”, osano prendere coscienza che “fatti non furon per viver come bruti” e osano farlo con le stanghe della zuppa sulle spalle. Levi doveva compiere il suo viaggio fino ad Auschwitz per cogliere la similitudine tra il versetto 100 “misi me per l’alto mare aperto” e il verso 109: “a ciò che l’uom più oltre non si metta”, per comprendere che quel loro partire non esauriva la loro esistenza, il cui significato risponde ad un fine superiore che trascende dall’atroce insensatezza del Lager. Primo capisce, rimembrando Dante, di non perdere la dignità umana anche quando si è schiacciati sul fondo del luogo in cui si cercò di cambiare la natura degli uomini, al fine di trasformarlo in una sorta di sintesi tra “non-uomo e sotto-uomo” (non a caso, il titolo del libro è “Se Questo È Un Uomo”).

Levi, durante il suo folle volo, cerca di infrangere le leggi che vigono nel Lager, che “li vogliono ridotti a marionette”, ma finisce per essere sommerso ‘come altrui piacque’. Levi e Pikolo cercano di comprendere che loro sono lì come altrui piacque, perché è il loro destino: compreso questo, il mare si richiude.

Levi è, però, anche e soprattutto un testimone salvato che è diventato ‘misuratore degli uomini nel Lager, motivo per cui viene definito il “Darwin della Morte: non è un Virgilio dell’Inferno tedesco, ma è il suo interprete scientifico (riflessione della scrittrice Orzick). Ciò spiega l’esattezza espressiva dello stile, che rifugge ogni ambiguità. Il suo stile trasmette un chiaro messaggio: all’insensatezza del Lager è necessario opporre la limpidezza del verbo, la trasparenza del significato, per comprendere che Auschwitz era caos assoluto e ordine assoluto, era un universo regolato da una follia geometrica.

Levi, dunque, con un πάϑος senza riparo, racconta fatti al limite dell’indicibile per impedire l’assassinio postumo della memoria stessa e per ricordarci che è avvenuto e, quindi, può accadere di nuovo. Infine il ritorno alla vita, carica d’angoscia, tra l’inferno del Lager e il ritorno ad una normalità negata, perché non ha mai cessato di visitarlo un sogno pieno di spavento, dove “nulla è vero all’infuori del Lager, il resto è solo un breve sogno e ben presto si ode “risuonare una voce ben nota, una parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: ALZARSI WISTAWAC! (Primo Levi, “La Tregua”).

Rachele Tomassoni, 1C
a.s. 2023/2024

 

Torna al “Saggistica”

Torna al “Blog”

Circolari, notizie, eventi correlati