SE I FRATELLI KARAMAZOV E L’EDIPO RE
Analisi critica comparata
La maledizione della stirpe
Il tema della stirpe, in greco antico “γένος”, è lo spirito che anima la letteratura classica, fulcro dei filoni narrativi più celebri del mito antico. In tutti i generi della letteratura classica, infatti, sono presenti racconti di vicende connesse a personaggi divini o epici legati dallo stesso sangue, che oltre a rappresentare un vincolo di parentela, testimonia l’appartenenza ad un fato comune, ineluttabile, i cui epiloghi sono tragici. Nella cultura greca il concetto di colpa è correlato al “patrimonio” che viene ereditato dalle generazioni future, che sono costrette ad avere un destino di sventure per una sorta di “peccato originale”, un affronto alle divinità castigato con la peggiore punizione: la maledizione della stirpe. È il caso della stirpe degli Atrei, la cui storia è narrata nei Poemi omerici e nella tragedia greca da Eschilo, nella tetralogia l’Orestea e da Sofocle, nell’Elettra. L’origine delle avversità della famiglia va rintracciata nel mito del capostipite della stirpe, Tantalo, che per provare l’onniscienza degli Dei offrì loro in pasto suo figlio Pelope. A causa di questo atto di “ὕβρις” fu gettato nel tartaro, costretto a patire la sete e la fame, senza mai riuscire a cibarsi né a dissetarsi.
Un altro esempio è quello della stirpe di Cadmo, la cui storia si sviluppa a Tebe e culmina con la tragedia di Edipo e il suo accecamento. Nella tragedia, Cadmo appare nelle Baccanti di Euripide, mentre il Racconto di Edipo si sviluppa nelle tragedie Sofoclee Edipo Re ed Edipo a Colono. La maledizione della stirpe in questo caso è legata al mito della fondazione della città di Tebe, secondo cui Cadmo, seguendo il consiglio dell’oracolo di Delfi, fondò una città nel luogo in cui si fermò la mucca che lui aveva seguito. Questo luogo era custodito da un drago caro al Dio Ares e fu sconfitto proprio dall’eroe, contro cui fu scagliata una maledizione, perpetrata nei secoli attraverso i suoi discendenti.
Nel romanzo di Dostoevskij, l’elemento mitologico e sacro della maledizione divina risulta essere assente, o quanto meno celato. Tuttavia non mancano all’interno dell’opera, nelle analisi dei comportamenti dei fratelli, continui riferimenti alle caratteristiche familiari, tipiche “di un Karamazov”. Possiamo dire che nonostante questo, l’autore russo ha delineato una figura che certamente incarna nell’era moderna un calzante esempio di “ὕβρις”, che potremmo identificare come la sua caratteristica principale; nel “libro primo, Storia di una famiglia” Dostoevskij parla per la prima volta del capostipite dei Karamazov, Fedor Pavlovic, un uomo che originariamente era poco più che un modesto proprietario terriero e che “al momento della morte, si trovò ch’egli aveva non meno di centomila rubli in moneta sonante”. La prima informazione che il lettore carpisce su questo personaggio è che si ha a che fare con uno “sconclusionato e bislacco”, che tuttavia, come l’autore sottolineerà più volte nel corso della vicenda, non era stupido, e che nonostante la sua modestia di acume era in grado di “badare ai suoi affarucci”. Dostoevskij asserisce che questa sua “scervellataggine”, assume “una sfumatura particolare, nazionale”, quindi possiamo dedurre che il pubblico russo della seconda metà dell’ottocento dopo una prima lettura fosse in grado di figurarsi nella mente una figura stereotipata, una caricatura certo, ma pur sempre vicina alla quotidianità slava. Uomo dissoluto, caratterizzato da un’accesa libidine e un debole per l’alcol, Fedor Pavlovic si sposerà due volte: la prima con Adelaida Ivanovna, appartenente al ricco ceto dei possidenti Miusov, la quale, come l’autore stesso asserisce, si lascia persuadere da tale uomo in uno slancio di “ofeliana indipendenza femminile”, la stessa che la convincerà poi a scappare. Inutile sottolineare che il soggetto in questione fosse interessato esclusivamente alla dote della sua consorte, tanto che la famiglia stessa della donna dovrà porre un freno alle sue ingerenze nei confronti dei loro possedimenti. Da questo “amore” nascerà il primo figlio di Fedor Pavlovic, Dmitri “Misha” Karamazov. Il padre non si interessa minimamente alla salute del figlio, ma continua a dedicarsi alle sue attività orgiastiche senza aver cura nemmeno della moglie. Come accennato poco fa, queste prime nozze cessano con la fuga di Adelaida Ivanovna. In seguito Fedor Pavlovic sposa la giovane Sof’ja Ivanovna, ragazza dal carattere umile e remissivo, che a differenza della precedente consorte, è presa in simpatia dal fedele servo Grigorij, l’unico che con coraggio cerca di contenere la furia libidinosa del padrone. La sfortunata ragazza era un’orfana, presa in cure da un’anziana vedova di un generale; come per le nozze precedenti, Fedor Pavlovic rapisce la giovane Sof’ja, costringendo la famiglia di lei a concedergli le nozze, pur non concedendo alcuna dote. Per questa ragione Fedor Pavlovic assoggetta psicologicamente la remissiva Sof’ja, che quindi, da vittima di rapimento quale effettivamente ella era, è tramutata con perversa violenza in colpevole, un peso inerte che non aveva garantito alcun vantaggio economico all’uomo, che si sente in diritto di tradirla nella sua stessa casa non curante della sua presenza. Prima di morire Sof’ja diede alla luce due piccoli, Alekseij e Ivan, che a differenza del fratellastro Dimitrij avranno un’infanzia più agevole, grazie all’intervento dell’anziana vedova.
Per concludere il quadro descrittivo dei tratti della personalità del padre dei Karamazov, è necessario menzionare che poco dopo il primo libro del romanzo, l’autore si sofferma a descrivere la servitù dell’uomo. Essa era composta da Grigorij e da sua moglie, e da Smerdjakov, letteralmente “figlio di colei che puzza”, accolto da Grigorij e presumibilmente figlio naturale del padrone. Una notte, infatti, avendo sentito dei lamenti provenienti dal bagno antistante dalla proprietà di Karamazov, Grigorij si imbatte in una donna in procinto di partorire: è la giovane Lizaveta Smerdjaskaja, una povera senzatetto nota in tutta la cittadina in cui è ambientata la vicenda, aiutata a sopravvivere dall’elemosina degli abitanti. Il neonato Smerdjakov è il frutto di una violenza sessuale (non viene detto con certezza dall’autore, che per tutelare la “plausibile veridicità del romanzo” usa l’espediente di una voce diffusa nella città di cui egli stesso avrebbe sentito parlare) perpetrata da Fedor Pavlovic in stato di ubriachezza, a seguito di una serata passata a bere con dei suoi amici. L’uomo pur non riconoscendo legittimamente il figlio lo “accoglie nella sua dimora (l’isba di Grigorij) come servo.
Se si vuole cercare una qualche affinità con il “τόπος” greco della maledizione della stirpe, bisogna partire dal principio del romanzo, dal primo personaggio che il lettore conosce in questo romanzo. Ovviamente la “ὕβρις” di Fedor Pavlovic si concretizza in chiave cristiano-ortodossa, incarnando egli il vizio, la “virtù” per eccellenza di un peccatore secondo la tradizione delle religioni monoteiste.
Si può supporre che la maledizione della stirpe si concretizzi in due modi principali:
-la diffamazione, tipica della tradizione popolare europea, causata come l’autore stesso sottolinea nel romanzo, dalla grandissima risonanza che l’omicidio di Fedor Pavlovic ebbe in tutta la nazione; L’iter giudiziario diventerà un vero e proprio spettacolo, mettendo metaforicamente a nudo tutti i personaggi coinvolti nella vicenda, e tramutando il nome Karamazov in un’onta, una cicatrice indelebile sui tre fratelli.
-lo stravolgimento interiore, che tutti e tre i fratelli sperimenteranno in modi diversi. Il caso esemplare è quello di Ivan, il fratello che pur essendo innocente inizierà un travagliato percorso di sensi di colpa, che culminerà in una profonda crisi spirituale e in continue allucinazioni. Una sorte analoga sarà riservata a Dmitrij, il più simile dei tre fratelli al padre, che in preda ai rimorsi arriverà quasi ad accettare l’ingiusta condanna per omicidio come la giusta espiazione necessaria a cambiare vita. Alekseij il più sensibile dei fratelli, riuscirà ad affrontare lo shock psicologico della vicenda solo grazie ad un gruppo di giovani scolari di cui diventerà precettore morale;
Il parricidio: perché e come
In entrambe le opere analizzate, ovvero “I Fratelli Karamzov” e “L’Edipo Re” l’evento principale è un parricidio. Le due figure che si rendono carnefici di questo delitto sono Smerdjakov nel romanzo di Dostoevskij ed Edipo nella tragedia di Sofocle. Prima di analizzare i veri e propri fatti che caratterizzano gli omicidi, ritengo necessario evidenziare una prima differenza, che a mio avviso si evidenzia nella composizione delle due opere. Per quanto riguarda l’Edipo re di Sofocle, il parricidio è avvenuto prima dell’inizio del dramma, e quindi dei primi versi della parodo; infatti il personaggio di Laio, il vero padre di Edipo non è presente nell’opera, ma viene menzionato dai personaggi attraverso delle analessi: “una volta, signore, avevamo come capo di questo paese Laio, prima che tu governassi questa città” (Creonte vv. 103-104 prologo). Lo stesso avviene durante la ricostruzione dei fatti, ad opera dello stesso Edipo, il quale attraverso il ricordo, ricostruisce gli eventi che lo hanno portato a compiere un omicidio.
Per quanto riguarda i fratelli Karamazov, Dostoevskij inserisce l’omicidio nella trama del racconto, senza tuttavia renderlo esplicito: l’autore narra la notte dell’omicidio dal punto di vista del fratello maggiore Dimitrij, il quale si è introdotto nella proprietà del padre con un pestello di bronzo, lasciando quasi intendere al lettore che di lì a poco sarebbe avvenuto l’evento fatale. Tuttavia, proprio quando Dimitrij si trova a impugnare il pestello con il padre sotto tiro, la narrazione si interrompe bruscamente: “Mitja, ormai era fuori di sé: e d’improvviso trasse su dalla tasca il pestello di bronzo…” (dal libro “Mitja” de “I fratelli Karamazov”). Il racconto riprende con la narrazione della fuga repentina di Dimitrij e della sua aggressione allo schiavo Grigorij che aveva tentato invano di fermarlo. Sarà solamente nel capitolo “Il fratello Ivan Fedorovic” che il lettore, durante la terza visita di Ivan a Smerdjakov, scoprirà gli eventi realmente accaduti celati dall’improvvisa interruzione del narratore, che verranno analizzati in questa sezione della tesi, attraverso la confessione del reale colpevole del delitto, e cioè dal figlio di Lizaveta. Ma qual è la differenza tra le due opere, se entrambi i carnefici rivelano i fatti attraverso l’analessi? Come accennato precedentemente, la prima differenza sta nella trama delle due opere, poiché l’omicidio di Laio non compare nella consecutio delle vicende narrate nella tragedia, mentre l’omicidio di Fedor Pavlovic è parte importante nella trama del romanzo dell’autore russo.
2.1 Il movente
La discrepanza più evidente fra le due opere potrebbe essere proprio la diversa motivazione che si cela dietro la trasformazione di Edipo e Smerdjakov in due assassini.
Nel primo caso l’omicidio si concretizza per volontà divina, in quanto Edipo viene a sapere dall’oracolo di Delfi che il suo destino è quello di uccidere suo padre e unirsi con sua madre, i quali credeva erroneamente fossero Merope e Polibo, i suoi genitori adottivi. Pertanto, pur di sfuggire al suo destino, decide di non tornare più in quella che considerava la sua terra natia, Corinto. Nel tragitto incontra Laio e inconsapevolmente, compie la prima parte del vaticinio ricevuto dal Dio, dando inizio al percorso irreversibile della sua vicenda tragica. L’impossibilità di combattere contro il proprio destino è la tematica centrale delle tragedie Sofoclee, e la consapevolezza di esso è possibile solo a seguito del suo compimento. Edipo, apparentemente innocente, si macchia tuttavia di “ὕβρις”, stando a una lettura dell’opera in chiave antica, proprio nel tentativo di abbattere i limiti della sua fragilità umana, cercando di evitare la sua sorte.
Smerdjakov, al contrario, è una figura molto più complessa del personaggio di Edipo, in quanto possiede una profonda caratterizzazione psicologica, ed è proprio attraverso il ricorso alla psicoanalisi che si può ricostruire il movente dell’omicidio di suo padre. Nel capitolo “Smerdjakov” dal libro dei Lussuriosi, Dostoeskij fornisce un quadro della sua figura. Al momento dei fatti Smerdjakov è descritto come un giovane ventiquattrenne, “taciturno e silenzioso” il quale, sin dalla tenera età, aveva dimostrato dei lati perversi del suo carattere, che si manifestavano in attività bizzarre, come il provar “gran gusto nell’impiccare i gatti, e poi a seppellirli con tanto di cerimonia funebre”. Quando è sorpreso dal servo Grigorij in tale attività, il ragazzo è “battuto duramente” e reagisce chiudendosi nel suo “cantuccio”, come lo definisce l’autore, nel più totale silenzio, costretto a subire le angherie psicologiche del suo tutore: “Tu non sei un uomo, tu ti sei creato da quel marciume del bagno, ecco che sei…”. Un altro tratto del carattere, predominante e sapientemente usato da Smerdjakov, è la superbia, che emerge quando Grigorij impartisce al giovane lezioni di lettura e scrittura, durante le quali lo studente si esibisce in tutta la sua irriverenza, e viene prontamente punito dal suo “maestro”. Misantropo e solitario, l’autore sottolinea come egli non fosse mai stato attratto dal sesso femminile per cui sembrava mostrare una certa ripugnanza e tanto meno viene desiderato da esso. Durante le prime fasi della sua crescita, il suo presunto padre Fedor Pavlovic è totalmente assente, e accetta il bambino nella sua casa come un lacché; lo prenderà in considerazione solo durante la sua adolescenza, spedendolo a Mosca per imparare il mestiere del cuoco. Tuttavia sembra opportuno supporre che in qualche modo, probabilmente a causa dell’ambiente provinciale in cui cresce, Smerdjakov sia venuto in qualche modo a sapere i dettagli della sua storia, del suo concepimento e della fine di sua madre. Le limitate conoscenze in psichiatria non mi permettono di dire con certezza se questo possa essere ritenuto il vero movente dell’omicidio, tuttavia, considerando il suo carattere, presumo che questo ulteriore trauma, sommato ai suoi disagi preesistenti, possa aver causato in lui un forte malessere psicologico. Ciò che è certo, è che il giovane crebbe nel totale isolamento e in pessime condizioni psicofisiche (soffriva di epilessia), abusato e maltrattato da tutti i personaggi principali dell’opera, trattato come un reietto, un mostro, il quale, a differenza di Edipo, decise di vendicarsi di colui che considerava l’artefice del suo tragico destino, di suo padre biologico.
2.2 I fatti
Passerò adesso al confronto degli eventi che danno vita ai due parricidi presi in esame.
Come accennato precedentemente, Edipo si stava allontanando da Delfi, dopo aver preso la decisione di non ritornare a Corinto, quando giunse ad un trivio, in cui si congiungevano alla strada dell’oracolo, quella per Tebe e quella per Daulide. Si imbatté qui in un carro su cui, oltre all’auriga, vi erano altre quattro figure, erano suo padre Laio, con dei servitori al seguito, il quale, come riferito da Giocasta era partito per un’ambasceria. “quando viaggiando fui vicino a quella triplice strada, là un araldo e un uomo che stava su un carro tirato da cavalli, quale tu dici, mi vennero incontro. E sia la guida che lo stesso vecchio mi spingevano con violenza fuori dalla strada…ma in breve colpito col bastone da questa mano da mezzo il carro rotolò fuori supino, poi uccisi tutti.” (Edipo re, vv.800-813). È in questa scena della tragedia che ha inizio la vicenda tragica di Edipo, che da questo momento in poi, in un climax ascendente, inizierà un’indagine che lo porterà a scoprire di essere il carnefice di suo padre.
Nei fratelli Karamazov l’omicidio è collocato cronologicamente all’interno del capitolo Mitja, anche se come abbiamo già chiarito, gli eventi non sono raccontati dall’autore nel corso del loro avvenire. È lo stesso Smerdjakov che racconterà al fratellastro Ivan come ha messo fine alla vita di suo padre. Quella notte Mitja va a casa di suo padre per accertarsi che non vi si fosse recata la sua amata Grusenka, oggetto di desiderio anche di Fedor Pavlovic, che aveva cercato più volte di convincerla a sposarlo offrendole denaro. Nel paragrafo precedente “la struttura delle due opere a confronto” avevamo interrotto la nostra analisi dei fatti al momento della fuga di Dimitrij. Grigorij era stato tramortito proprio dal fuggitivo, mentre invece Fedor Pavlovic, resosi conto della presenza del figlio e temendo per la sua vita, si rinchiude rapidamente all’interno della sua abitazione (si era sporto dalla finestra). È necessario chiarire che egli si sporge perché ode una serie di colpi sequenziali dati al vetro da Dimitrij, che utilizza il segnale pattuito con Grusenka, per permetterle di entrare attraverso la finestra. A questo punto Grigorij giace tramortito presso il recinto dell’abitazione, mentre Fedor Pavlovic è all’interno della sua camera; nell’isba della servitù la moglie di Grigorij dorme pesantemente, a causa di un farmaco precedentemente assunto, lasciando modo a Smerdjakov di agire: egli sale in camera di Fedor Pavlovic attraverso la porta che dà sul giardino (porta che rimane aperta, e che Grigorij, avendo ripreso i sensi vede chiaramente, e lo testimonia, contraddicendo Dimitrij Karamazov che invece asserisce che la porta fosse rimasta chiusa durante tutta la durata della colluttazione). Una volta che il giovane Smerdjakov si reca da Fedor Pavlovic, lo persuade a riaffacciarsi alla finestra, dicendogli: “C’è qui lei è venuta, cerca di voi”, e una volta che il presunto padre si sporge nell’effimero tentativo di raggiungere la sua amata, Smerdjakov lo percuote violentemente sul cranio con un posacenere in ghisa per un totale di tre volte. Dopo aver ripulito l’arma del delitto, si ricorica nell’isba e sveglia Marfa Ignatev’na simulando un attacco epilettico.
Umano vs Divino
Nell’Edipo Re, Sofocle decide di non mettere in scena alcun personaggio di natura divina, mettendo nel focus dell’opera esclusivamente l’uomo, le sue azioni, le sue angosce e le sue incertezze. Questo non vuol dire però che la tragedia sia completamente priva dell’elemento divino, anzi esso sembra aleggiare invisibile sopra gli uomini inermi e inconsapevoli; il risultato di questa decisione artistica avvalora l’ipotesi che la tragedia fosse percepita come “vicina” dagli spettatori Ateniesi, rendendoli capaci di immedesimarsi nei personaggi in scena e ricevendone quasi un monito. Sofocle, a differenza per esempio di Eschilo, non mostra le conseguenze della lotta che l’essere umano tenta contro la propria sorte (si prenda come esempio il Prometeo incatenato, dove viene inscenata la punizione divina a cui è soggetto Prometeo), piuttosto sceglie di rappresentare l’inesorabilità del volere degli dei, il quale, come gli dei stessi, non è neppure comprensibile dall’uomo, che non possiede le capacità di carpire una tale conoscenza. L’essere umano semplicemente è rappresentato nella sua collocazione naturale, al di sotto del mondo divino e lontano da esso, fragile e costretto a sottomettersi. Edipo stesso compie un percorso evolutivo il quale culminerà nella tragedia successiva, l’Edipo a Colono. L’eroe Sofocleo inizia il suo cammino verso la tragica conoscenza subito dopo aver appreso il vaticinio del Dio; analogamente al protagonista del mito della caverna di Platone egli è accecato dal bagliore della conoscenza ricevuta, ma invece di “adattarsi” ad essa, come racconta il filosofo nella Repubblica, fugge irrazionalmente, cerca di ripararsi: si chiude nello stato primordiale della conoscenza e cioè l’autoaccecamento, come se la fuga fosse una forma di autodifesa da questa verità scomoda, a lui rivelata. Proprio la fuga lo conduce dritto nelle maglie del destino tessute per lui, fino al terribile trivio, in cui porrà fine alla vita di “un uomo che stava su un carro tirato da cavalli”, suo padre Laio. Diventando poi eroe di Tebe, secondo il mito dopo aver liberato la città dalla sfinge, e prendendo in moglie sua madre Giocasta compie il suo destino, ma non il suo percorso di ascesa spirituale. L’Edipo Re rappresenta il culmine dell’angoscia causata dalla presa di coscienza dell’eroe, che si innalza a mano a mano che Edipo, attraverso la sua indagine, si rende conto della verità. La tragedia del dramma coincide con l’atto finale di questa ricerca, quando Edipo si rende conto che la sua convinzione di colpevolezza coincide con la verità “se infatti sei tu quello di cui parla costui, sappi che sei nato infelice” “…” “o luce! Possa io vederti per l’ultima volta ora, poiché è apparso evidente che nacqui da chi non dovevo nascere, sono stato con chi non dovevo, ho ucciso chi non dovevo!” (dialogo fra Edipo e il servo di Laio, Edipo re IV episodio). La magnitudo della conoscenza è tale da non poter essere sostenuta e quindi Edipo si acceca.
Dostoevskij affronta la questione della religione concentrandosi su Dio, il Dio cristiano ortodosso, venerato in terra russa nella seconda metà dell’ottocento. Gli snodi fondamentali di questo complesso nucleo tematico sono snocciolati attraverso due voci opposte, in quello che assume a tutti gli effetti i caratteri di un confronto sofistico, se dovessimo decontestualizzare il romanzo ed immaginare la discussione sull’acropoli di Atene nell’epoca di Sofocle, fra Alekseij e Ivan, figli della stessa madre e i più intellettuali dei fratelli.
Alekseij è la voce della ceca fede in Cristo, che tutta via non assume la forma dei così chiamati “matti in Cristo”, di cui Dostoevskij tratta nel suo romanzo “delitto e castigo”, poiché nonostante la sua diligenza nell’osservazione della vita religiosa, il giovane è un dotto scolastico, dotato di istruzione e avviato alla vita di tonaca; non ci troviamo davanti a un uomo del volgo, la cui devozione a Dio derivi da un’imposizione tradizionale. Alesa è la voce della fede. In contrapposizione c’è Ivan. L’opposto del fratello. L’unica esperienza che condivide con lui è l’istruzione, la quale non ebbe una deriva religiosa, ma lo condusse a studiare in Francia, a contatto con le ferventi menti parigine, contagiate dagli ideali illuministi e memori dell’era delle rivoluzioni. Egli è un ateo convinto, le cui tesi si basano su uno spietato materialismo logico, che non lascia alcuno spazio di intervento a sentimentalismi o atti di fede.
Il primo confronto fra le due parti avviene in seguito alla riunione di famiglia tenutasi nel monastero presso lo Starec Zosima, in casa del padre Fedor.
Fedor – Ivan, dimmi: Dio esiste oppure no? Ma parla sul serio! Ho bisogno che tu risponda seriamente (qui sta parlando Fedor Pavlovic)
Ivan – No, Dio non esiste.
Fedor – Alekseij, Dio esiste?
Alekseij – Dio esiste.
Fedor – Ivan, e l’immortalità esiste, c’è qualcos’altro dall’altra parte, anche qualcosa di piccolo, minuscolo?
Ivan – Non esiste neanche l’immortalità.
Fedor – Di nessun genere?
Ivan – Di nessun genere.
Fedor – Vale a dire lo zero assoluto, oppure c’è qualcos’altro? Forse esiste qualcosa di diverso? Sarebbe pur sempre qualcosa!
Ivan – Lo zero assoluto.
Fedor – Alekseij, esiste l’immortalità?
Alekseij – Esiste.
Fedor – Sia Dio che l’immortalità?
Alekseij – Sia Dio che l’immortalità. In Dio c’è anche immortalità.
Fedor – Uhm… è più probabile che abbia ragione Ivan. Oh signore, pensa solo a quanta fede ha sprecato l’uomo, quante forze ha sciupato invano per questo sogno, e ciò da migliaia di anni ormai! Chi si prende gioco in questo modo dell’uomo? Ivan? Per l’ultima volta, e in maniera decisiva: c’è Dio oppure no? Per l’ultima volta!
Ivan – E per l’ultima volta vi dico di no.
Fedor – Allora chi si prende gioco dell’uomo, Ivan?
Ivan – Il diavolo, forse- rispose Ivan Fedorovich sorridendo.
Fedor – E il diavolo esiste?
Ivan – No, neanche il diavolo esiste.
Fedor – Peccato. Al diavolo! Che cosa non farei a chi per primo ha inventato Dio! Neanche impiccarlo a una tremula potrebbe bastare.
Ivan – Non ci sarebbe stata la civiltà, se non avessero inventato Dio.
Fedor – Non ci sarebbe stata? Senza Dio?
Ivan – Esatto. Non ci sarebbe stato neanche il cognacchino. Ma adesso mi toccherà togliervi quel cognac.
In questo primo scambio “a distanza” vengono semplicemente chiarite le posizioni dei due personaggi, che essendo agli antipodi si confronteranno direttamente molto più tardi nel romanzo, quando Ivan inviterà Alekseij nel locale in cui stava pranzando, con la scusa di salutarlo prima di partire.
Il confronto viene affrontato in prima battuta in modo logico, ma Ivan stesso porterà il tema sul piano morale. Egli pone al centro del dibattito il grande paradosso che caratterizza la fede cristiana, e cioè la sofferenza. L’intento di Ivan è quello di dimostrare l’inesistenza di Dio, tuttavia attraverso le sue parole, siamo in grado di capire quello che secondo l’autore russo è il rapporto fra esseri umani e Dio. Ivan parte dal presupposto che Dio, pur avendo dato all’uomo il libero arbitrio, debba avere un disegno in mente, essendo egli onnipotente e non volendo rendere egli suo schiavo, costringendolo alla fede. Ma qual è la diretta conseguenza del libero arbitrio? Il peccato, il male, l’uomo è una creatura che divincolata dalle catene, produce sofferenza; tuttavia Ivan sottolinea che egli non condanna la sofferenza dei peccatori, si sofferma piuttosto sull’analisi della sofferenza delle anime innocenti, che sono rappresentate dai bambini, l’esempio perfetto di quelle che sono considerate da tutte le culture l’emblema della purezza. La domanda che Ivan pone ad Alekseij è proprio come sia possibile che un Dio onnipotente tolleri che delle essenze non ancora sviluppate, e quindi non solo non in grado di commettere il peccato ma perfino di comprenderlo, siano soggette alle più inumane atrocità. Per avvalorare le sue tesi, Ivan porta come esempi le vicende di bambini russi, seviziati, torturati e uccisi nei modi peggiori, dando vita a uno dei passi, stando alla mia esperienza diretta della lettura, più duri dell’intero romanzo. Egli non accetta che possa esistere un fine, nemmeno il più divino e incomprensibile, che possa giustificare questa ingiusta sofferenza.
Il macro-tema della libertà viene invece affrontato nel poema intrinseco al romanzo, un’entità a sé stante, la quale potrebbe avere vita propria, essendo indipendente dal filone principale dell’opera. Ivan racconta al fratello di aver creato un dramma ambientato nella spagna del XV secolo, in piena era dell’inquisizione. Il racconto parla della seconda venuta di Cristo in mezzo agli uomini, il quale pur essendo venuto sotto mentite spoglie, viene riconosciuto e arrestato dalle autorità, per aver resuscitato una defunta bambina dalla bara. Cristo viene sottoposto alle domande di un anziano inquisitore, che darà vita a un lungo monologo, senza ricevere alcuna risposta. L’anziano inquisitore parla del nuovo ordine costituito da VIII secoli dalla Chiesa che si basa su tre principi fondamentali: Dogmatismo, Miracolo e Autorità. Secondo l’inquisitore questi tre elementi sono gli strumenti con cui è possibile governare l’essere umano. Egli ammette che proprio attraverso la menzogna, la chiesa ha instaurato un regime di “spada”, contravvenendo al disegno originale di Dio, rinnegando il principio di libertà, ma che proprio grazie a questo regime era stata in grado di “abbracciare” le esigenze di tutti gli esseri umani; come nell’Edipo Re, gli uomini sono visti come degli esseri deboli, che ricercano inconsapevolmente un’entità a cui obbedire, a cui affidarsi, pur di sfuggire al caos della propria libertà. Il disegno di Cristo, fondato sul libero arbitrio è un’utopia che causa soltanto scompiglio e peccato, poiché la debolezza degli uomini li conduce verso il vizio, a diventare schiavi dei loro bisogni. In conclusione, il paradosso del libero arbitrio, è che in ogni caso l’uomo diventerebbe schiavo delle proprie debolezze, e che quindi la Chiesa debba farsi carico di “soggiogare” gli uomini, affinché essi non si autodistruggano nel caos. Cristo, che finora non ha proferito parola, si alza e bacia sulle labbra l’anziano inquisitore, suscitandone la rabbia.
Lo psicanalista Sigmud Freud legge questo bacio in chiave omoerotica, riconducendolo alle turbolente vicende personali dell’autore, che caratterizzarono il rapporto con suo padre. Tuttavia, rimanendo in tema religioso, il bacio potrebbe essere letto come una forma di pietà divina nei confronti della misera moralità della chiesa, oppure come una solenne forma di amore, in risposta agli attacchi dell’inquisitore.
Non dicevi Tu allora spesso: “Voglio rendervi liberi?”. Ebbene, adesso Tu li hai veduti, questi uomini “liberi”, – aggiunge il vecchio con un pensoso sorriso. – Si, questa faccenda ci è costata cara, – continua, guardandolo severo, – ma noi l’abbiamo finalmente condotta a termine, in nome Tuo. Per quindici secoli ci siamo tormentati con questa libertà, ma adesso l’opera è compiuta e saldamente compiuta. L’inquisitore – I Fratelli Karamazov.
La visione religiosa: il Mistero
La presenza della divinità nell’Edipo Re è testimoniata solo dal destino, dai responsi oracolari e dall’indovino Tiresia. Abbiamo visto come il rapporto tra uomo e Dei è regolato da una preponderante ambiguità, che determina la nascita nell’animo mortale e fragile, false speranze e illusioni. Nella tragedia, Sofocle mette in scena le possibili reazioni dell’essere umano di fronte all’ignoto, come in una sorta di studio sociologico. Tali reazioni, che si manifestano quando i suoi personaggi si trovano a dover affrontare la suddetta ambiguità sono molteplici: dopo che Creonte riporta alla città il responso dell’oracolo Edipo assume la fallace consapevolezza di essere lui in grado e in dovere di liberare la città dalla peste. Secondo quanto detto da Creonte, la città è afflitta dal morbo poiché l’uccisore di Laio è ancora presente nella città di Tebe, e il suo omicidio deve essere vendicato quantomeno con l’allontanamento del colpevole dalla polis: “ma io di nuovo svelerò quel mistero dal principio… Cosicché a buon diritto vedrete anche me come alleato far vendetta per questo paese e insieme per il Dio”. Nel prologo Edipo mostra tutta la sua sicurezza, simbolo della fiducia nell’ingegno umano, poiché nel periodo storico in cui fu messa in mostra la tragedia, i sofisti avevano ridato centralità all’essere umano; Sofocle non rinnega totalmente questa idea, tuttavia è convinto che esistano dei limiti invalicabili per la mente, oltre i quali l’uomo non ha possibilità di spingersi. La seconda reazione è l’incredulità, che prova nel dialogo con Tiresia. Tiresia conosce tutta la verità, è in grado di carpire quel sapere intangibile per gli altri umani, essendo stato elevato dagli Dei in seguito al suo accecamento. È proprio sul paradosso della “vista” che Sofocle gioca nella stesura del dialogo, in quanto l’indovino cieco è l’unico in grado di “vedere” cosa accadrà nel futuro. Egli profetizza una tragica sorte per Edipo, rivelandogli che l’oggetto disperato della sua ricerca, è lui stesso. Edipo non può che reagire cedendo a quella naturale fragilità psichica che lo caratterizza in quanto uomo, accusando Tiresia di aver complottato con Creonte ai suoi danni, per permettere al fratello di Giocasta di diventare il nuovo re di Tebe.
TI – Dico che senza saperlo hai rapporti nella maniera più vergognosa con le persone più care, né vedi in quale sciagura sei.
ED – E credi di poter dire queste cose impunemente?
TI – Sì, se almeno c’è una qualche forza nella verità.
ED – Ma c’è tranne che per te: tu non l’hai perché sei cieco nelle orecchie e nella mente e negli occhi.
TI – Non c’è nessuno fra questi che non ti rinfaccerà le cose che rinfacci a me.
Al compimento dell’indagine, e quindi all’apice della tragicità, Edipo si rassegna nella più totale disperazione, e coglie l’ironia tragica della sua vicenda: un uomo che si è inseguito da solo, che si è condannato da solo e che ha insultato un uomo assumendone poi le caratteristiche accecandosi:
“O luce, possa io vederti per l’ultima volta ora”
Risulta essere interessante e attuale il comportamento di Giocasta, la quale per scoraggiare il marito a perseguire la sua ossessiva ricerca assume un atteggiamento scettico, asserendo che la materia degli indovini non può che essere una fallace superstizione di poco valore. Il personaggio di Giocasta diventa testimone del contemporaneo spirito di razionalità, finalizzato a mantenere l’ordine della reggia e l’equilibrio del regno del marito. Riduce Tiresia alla stregua di un ciarlatano, rendendo l’opera di Sofocle vicina alla nostra quotidianità, al nostro “neo-umanesimo”, che diffida da ogni forma di superstizione o di qualunque nozione che si trovi al di là del confine delle nostre capacità logiche, reso l’abile, come sostenuto da Sofocle attraverso Edipo, dalla nostra superbia.
“Tu dunque assolvendo te stesso riguardo alle cose che dici ascolta da me e apprendi che non c’è nulla di mortale che abbia a che fare con l’arte divinatoria”.
Nei fratelli Karamazov, Dostoevskij decide di dare rilevanza al mistero della fede, che prende la forma di una sorta di indagine sul disegno di Dio. Anche in questo caso, come per la tragedia Sofoclea, ci troviamo davanti a una conoscenza intangibile, che tuttavia non può essere accettata come dogma: l’uomo ottocentesco non può assolutamente accontentarsi di rimanere confinato entro i propri limiti naturali, ma ha bisogno di razionalizzare, di spiegare e di controllare ciò che ha intorno a sé. Tuttavia è proprio a causa dell’approccio razionale che tale indagine finisce col naufragare nel rifiuto di Dio. La leggenda del grande inquisitore, oltre ad essere il manifesto di come Dostoevskij pensi che siano articolati i rapporti fra gli uomini e Dio, è anche una sintesi, che si incarna nell’inquisitore stesso, di come l’umanità non riesca ad accettare il mistero dietro gli eventi. È per questo che, per esempio, Ivan Karamazov non può vedere la tortura di una bambina innocente come un evento da accettare, in quanto parte di una maglia tessuta all’infinito da un essere superiore: il cervello umano non può concepire un fine che possa giustificare un atto così inumano. L’uomo moderno non può accettare l’inumano; l’uomo dell’Atene Sofoclea ha il dovere di accettare gli eventi che accadono poiché non ha potere sul suo destino.
“non vale essa (l’armonia dell’universo) le povere lacrime foss’anche di quel bambino solo che, straziato si batteva col minuscolo pugno sul petto, e nel fetido suo canile pregava con le sue lacrime irriscattabili il “buon Gesù”!”
Un altro paradosso che viene messo in luce nel romanzo è che Dio, come raccontato nelle sacre scritture, decide di concedere ai suoi figli il libero arbitrio per non renderli suoi schiavi. Tuttavia l’uomo, attraverso l’utilizzo razionale delle istituzioni della chiesa è riuscito a creare una società, come quella del grande inquisitore, completamente assoggettata alla Chiesa. Leggendo le argomentazioni dei suoi personaggi, sembra quasi che l’autore russo riconduca la sofferenza dell’essere umano a sé stesso; se esiste il male è perché l’uomo ha creato un “diavolo a sua immagine e somiglianza”, e come contraltare, un Dio “a sua immagine e somiglianza”, una sorta di antidoto necessario per frenare quella componente calcolatrice, spietata, istintiva, che si cela nei meandri più profondi dell’animo umano. Se l’uomo è “incatenato” egli non deve imputare ciò al perverso disegno di un Dio sadico, o a una punizione mitologica per “aver rubato il fuoco”, ma solo a sé stesso. Anche per Dostoevskij l’animo umano risulta essere fragile, e davanti a questa fragilità egli non teorizza una possibile “catena solidale” di stampo Leopardiano, anzi si limita a constatare che l’uomo, cedendo ai suoi vizi e alle sue perversioni crei una serie autodistruttiva di “male”. Probabilmente il mistero più grande presente nei fratelli Karamazov è il motivo che spinge l’essere umano a cercare una spiegazione delle proprie sofferenze e delle proprie speranze all’infuori di sé, come se avesse bisogno di alienarsi da ciò che è sostanzialmente. Piuttosto che essere libero, l’uomo presentato nel grande inquisitore, preferisce trovare un’entità a cui obbedire ciecamente, che soddisfi le sue necessità primarie, schiavo anche di esse, e un’illusione in cui credere per espiare la propria angoscia.
Amore e morte
Nell’Edipo Re questi due elementi sono connessi alla vita del protagonista, sono le due maschere dello stesso responso che l’oracolo di Delfi gli diede: il disegno della vita di Edipo è quello di uccidere e amare, è così che gli Dei vogliono che lui si relazioni con suo padre e con sua madre.
L’annullamento di potere decisionale che Sofocle applica al suo tragico eroe fu riletto dal fondatore della psicanalisi, l’austriaco Sigmud Freud, con la pubblicazione del suo saggio “interpretazione dei sogni”. La rilettura innovativa del mito si basa sulla rivalutazione dell’elemento della fragilità, intesa da Sofocle come condizione esistenziale dell’uomo che “annulla la responsabilità dell’uomo” e che viene trasferita nel processo evolutivo della vita umana; nella fase dell’infanzia il complesso di Edipo assume la sua forma più critica nella fase fallica, in cui l’infante riflette le sue pulsioni sessuali verso l’esterno, e di conseguenza verso sua madre, individuando al contrario nel proprio padre una figura rivale (nel caso della figura genitoriale maschile parliamo del complesso di castrazione, e cioè la paura del figlio che il proprio padre possa aggredire e rimuovere i suoi genitali). Per Freud la fragilità dell’uomo consiste nell’impossibilità degli “impulsi mortali opposti, di resistere al delitto”, e cioè resistere alle proprie pulsioni sessuali, mentre invece l’atteggiamento metodico di investigazione assunto dal protagonista non sarebbe altro che una vera e propria analisi psicanalitica; è interessante rilevare che per lo psicanalista, la tragedia riscuote un elevato successo a livello catartico poiché inconsciamente lo spettatore vede nella figura di Edipo la realizzazione del proprio sogno inconscio.
Una lettura diversa dell’opera è data da Erich Fromm, che nel suo “linguaggio dimenticato” parla di un linguaggio simbolico, applicato alla tragedia, di un’antica sapienza primordiale. Piuttosto che un simbolo di “amore incestuoso per la propria madre” secondo Fromm, Edipo è la testimonianza di una lotta “contro l’autorità del proprio padre in una società patriarcale. Secondo questa visione l’unione sessuale con la propria madre sarebbe solo una conseguenza del principale delitto, l’atto di ribellione contro il genitore dominante. Ampliando questa visione, in un ambito sociologico generale, la tragedia di Sofocle, in tutta la saga Tebana, è un simbolo dell’opposizione tra la società patriarcale e la società matriarcale. Questa teoria è avvalorata dal fatto che l’opera successiva della saga “Antigone” vede contrapporsi la figlia di Edipo e il nuovo re Creonte: la figura maschile esercita il suo dominio attraverso il potere politico delle leggi umane, mentre la figura femminile si oppone ad esso in chiave morale-religiosa.
La ricchezza di caratteri psicologici particolari, che caratterizza la vicenda dei fratelli Karamazov, rende possibile la comprensione dei molteplici eventi solo isolando i singoli rami dal grande albero dell’opera.
Il rapporto più diretto che potrebbe essere ricondotto alla teoria del conflitto è quello fra il padre Fedor e il Figlio Dimitrij. Nei capitoli precedenti, nel corso dell’analisi della famiglia, è emerso che quelli di Mitcha e Fedor sono i caratteri più simili: entrambi dissoluti, avvezzi all’alcol e al divertimento orgiastico, non caratterizzati da una singolare intelligenza né profondità emotiva. Al centro della loro rivalità ci sono due elementi: la questione economica, fondata dal reclamo di Dimitrij dell’eredità che gli spetta di diritto e che il padre si mostra restio a riconoscergli, da un lato e la questione amorosa, dall’altro lato, in quanto entrambi sono adulatori della spietata Grusen’ka, una giovane ammaliatrice, che soprattutto nella prima parte del romanzo assume tutti i toni della classica fémme fatàl ottocentesca.
Lo scontro si declina in molteplici aspetti, come ad esempio quello fisico, quando Mitcha irrompe nella casa di suo padre e lo aggredisce violentemente, limitato e placato dall’intervento dei suoi fratelli; a livello psicologico, perché Dimitrij, con l’aiuto “forzato” del sottomesso Smerdjakov tiene sotto stretto controllo la casa di suo padre, che si sbarra all’interno di essa, per evitare che Grusen’ka possa entrarvi. Ricollegandoci alle letture precedenti dell’opera Sofoclea, si notano delle affinità sia con l’analisi amorosa, perché le figure di Laio, Fedor, Edipo e Dimitrij possono essere sovrapposte o incluse nell’insieme dei rivali, con la sola differenza che “l’oggetto della contesa” non combacia; invece per quanto riguarda la materia della sociologia, la ribellione contro l’autorità genitoriale risulta essere completamente affine all’Edipo Re.
Nella figura di Alekseij la predominanza dell’elemento religioso sembra sommergere completamente la sua personalità, rinchiudendola come in una bolla. In un colloquio con suo padre però, nel capitolo Alesa questa “censura psicologica” sembra essere destabilizzata dall’oggetto del discorso, sua madre. Dostojevskij parla di una vera e propria crisi, di cui descrive con accuratezza la sintomatologia, che accelera il ritmo della narrazione dando quasi l’impressione di un’imminente “esplosione” da parte del giovane, quasi in procinto di reagire violentemente a questa “pressione psichica”.
Alesa fin dal primo momento che aveva sentito parlare di sua madre, man mano s’era venuto alterando il viso. Era diventato rosso in viso, gli occhi s’erano accesi, le labbra gli rabbrividivano…
…d’improvviso Alesa saltò in piedi da tavola, precisamente come, dal racconto, aveva fatto sua madre: batté insieme le mani, poi ci si nascose il viso, ricadde sulla sedia e scoppiò in una crisi di pianto”.
Questa fervente reazione dimostra la presenza di una ferita aperta, un trauma irrisolto risvegliato dalla voce dell’aguzzino della propria madre. A differenza di suo fratello, Alesa non dimostra di poter aggredire suo padre per sfogare il suo disagio, ma questo suo crollo, dimostra l’impossibilità di accettare la crudeltà subita da Sof’ja Ivanovna.
Smerdjakov è il più tormentato dei fratelli e probabilmente l’unica vera vittima dell’intero romanzo; suo padre è stato ucciso, Dimitrij incarcerato ingiustamente, ma lui sin dalla sua nascita è stato condannato all’infelicità, incoraggiato all’emarginazione, non solo dai comportamenti delle persone a lui vicine, ma anche soltanto dall’indelebile marchio che il suo nome rappresenta, letteralmente “figlio di colei che puzza”. L’esito della sua emarginazione sociale, oltre all’ovvia nascita di una morbosa misantropia, è la perversa passione per una “rituale violenza” nei confronti di creature facilmente sottomettibili, come dei gatti, sin dalla tenera infanzia. Il meccanismo difensivo che sviluppa in reazione alle angherie subite, come quelle del servo Grigorij durante le lezioni di lettura e scrittura, quelle di suo padre e i suoi fratelli, che hanno una considerazione di lui pari a quella di una creatura insignificante o al massimo di un miserabile lacché, è una sottile irriverenza che emerge soprattutto nei suoi colloqui con Ivan: lui, non considerato da nessuno, è in realtà un attento e sadico pianificatore, che agendo nella totale assenza di sospetti riesce a pianificare meticolosamente la morte di suo padre. Fedor Pavlovic è il vero assassino di sé stesso, poiché la sua mancata attenzione e cura verso i suoi figli ha generato un dolore e un disagio psicologico tale, da renderlo il nemico da eliminare. In questo caso, più che una ribellione all’autorità paterna, la quale è comunque presente ma declinata nella forma di un rapporto padrone-servo e non padre-figlio, Smerdjakov è il simbolo, o forse meglio il prodotto della crudeltà umana, che considerandolo un mostro, lo ha trasformato in esso. Il sentimento predominante in Smerdjakov è l’odio, verso l’esterno, che gradualmente si sposta dall’intera umanità fino alla figura di suo padre, e dopo un travagliato percorso psicologico, contro sé stesso. Il disprezzo di sé non è rappresentato dal suicidio, ma dalla considerazione della propria persona, perché l’atto di uccidersi non è altro che il passo conclusivo verso il fine predominante di condannare definitivamente Dimitrij e impedire ad Ivan di svelare la verità sull’omicidio di suo padre. Il suo corpo è per Smedjakov stesso uno strumento di odio.
I fratelli Karamazov rappresentano un’allegoria di un graduale e complessato confronto con la genitorialità, che sfocia in primis nello scontro diretto, successivamente nel collasso isterico, e infine nell’annientamento.
La sofferenza degli innocenti
Per Dostoevskij la categoria degli innocenti è definita su un piano esclusivamente morale, priva di ogni considerazione logica. La “bocca” attraverso cui esprime la sua teoria generale è quella di Ivan, che parlando con suo fratello Alekseij definisce innocente una creatura che “non è in grado né di commettere né di comprendere il peccato”, quindi secondo una visione etica cristiana, che non abbia ancora mangiato il frutto dell’albero proibito, ma che comunque si trova in uno stato di sofferenza.
Questa definizione generale dell’innocente, si traduce nel romanzo minore presente all’interno dei fratelli Karamazov, in cui si racconta la vicenda del piccolo Il’jusa, un giovane scolaro che appare per la prima volta in un incontro con Alekseij. Il bambino è costantemente vessato dalle angherie dei suoi compagni, che lo prendono di mira per il suo stato di miseria e per una pubblica umiliazione subita da suo padre, trascinato per la barba fuori da un locale da Dimitrij Karamazov; una componente fondamentale della sofferenza per l’autore russo è l’esclusione dalla cerchia dei propri simili, che causa un forte stato di fragilità e isolamento. L’episodio della “sassaiola” a cui assiste inerme Alekseij è un esempio di un attacco in branco, che, sempre grazie alla voce di Ivan, si spiega con la naturale tendenza dell’uomo a sfogare e liberare la sua istintiva violenza contro un individuo più debole, il quale, soprattutto nel caso di un bambino, assumendo un atteggiamento remissivo, non fa altro che incoraggiare tale perversione. Il’jusa subisce anche un declino fisico, rimanendo quindi costretto nel suo letto e dando al lettore l’opportunità di conoscere anche il suo quadro familiare: vive in una modestissima isba, il cui locale principale è usato come dormitorio e zona pranzo dalla famiglia; è figlio di un soldato dell’esercito in congedo, l’unico che si occupa della sopravvivenza del nucleo famigliare, sopportando sulle sue spalle il carico di una moglie inferma mentalmente, delle figlie e del piccolo Il’jusa. Man mano che il racconto procede, Dostoevskij suscita nel lettore un crescente stato di disagio e pena, delineando i tratti del ceto sociale meno abbiente della società russa ottocentesca. Alla suddetta condizione si aggiunge anche la malattia, che rappresenta l’elemento che irrazionalmente colpisce una creatura senza colpa, da cui ha origine l’intero dibattito dell’esistenza divina. La deriva della vicenda non è però, come si potrebbe immaginare, completamente negativa: davanti alla naturale condanna a morte di Il’jusa si contrappone lo scatto di bontà e compassione dei suoi stessi aguzzini, i suoi compagni di scuola, che sotto la guida si Alekseij Karamazov formano una sorta di “catena sociale”, che ricorda la teoria del poeta Giacomo Leopardi sugli strumenti che l’uomo ha per opporsi alla natura matrigna. In questo caso, pur essendo il “carnefice” differente da quello immaginato nel settecento da Leopardi, si concretizza una forte solidarietà, che a livello ipotetico potrebbe essere l’antidoto pensato da Dostoevskij all’ingiustizia e alla sofferenza, un amore umano, laico e non necessariamente cristiano come il bacio che Gesù dà all’inquisitore.
Il tema dell’innocenza è affrontato da Sofocle nell’ambito strettamente monarchico. Nella parodo iniziale l’intervento del sacerdote che supplica il suo re di trovare un rimedio per la peste che infesta la città, costituisce solo un accenno indiretto, uno scorcio della sofferenza che provano gli uomini dei ceti inferiori. Inoltre bisogna evidenziare che, come nei Fratelli Karamazov, la sofferenza dell’uomo è esistenziale, ma a differenza del piccolo Il’jusa Edipo si trova a fare i conti con le sue azioni; è interessante rilevare come entrambi gli autori, Sofocle e Dostoevskij attribuiscono ai loro personaggi, come condizione imprescindibile per l’innocenza, l’elemento dell’inconsapevolezza, l’una causata dal limite umano della conoscenza, l’altra tipica dell’età infantile.
Inoltre, mentre nei fratelli Karamazov la sofferenza non viene miticizzata con la visione dell’ereditarietà della colpa (eccezion fatta per il capostipite Fedor Dostoevskij, che secondo una lettura classica potrebbe essere identificato come il colpevole della maledizione della stirpe), Edipo sconta le colpe dei suoi antenati, Cadmo (vedi cap. 1) e Laio, il quale secondo il mito abusò il figlio di Pelope, Crisippo.
La sofferenza di Edipo si sviluppa in diversi gradi:
– Prima ancora di provare dolore direttamente a causa delle sue azioni, in una sorta di ironia della sorte, Edipo ha pena delle sofferenze dei suoi sudditi e si offre di risolverle. Come se egli fosse un eroe completamente esterno ai fatti;
– Quando Tiresia punta il dito contro Edipo, inizia un brusco cambio di comportamento nell’eroe, che esprime tutta la sua rabbiosa indignazione e abbandona l’atteggiamento di indagine scientifica con cui aveva iniziato la ricerca del colpevole del delitto di Laio, per abbandonarsi ad un’immotivata difensiva contro Creonte, il quale è incolpato di aver attaccato Edipo attraverso l’indovino;
– Il terzo mutamento comportamentale avviene quando Giocasta, nel tentativo di rassicurarlo, menziona il trivio presso cui, secondo il racconto di uno schiavo sarebbe stato ucciso Laio; Edipo, dimenticata la rabbia, è assalito da un frenetico timore e intraprende un serrato interrogatorio, pur sempre logico dal punto di vista investigativo, ma questa volta caratterizzato da un forte turbamento emotivo, nei confronti di sua moglie;
– La sofferenza vera e propria si concretizza al momento della matematica certezza della sua consapevolezza, quando lo schiavo ammette che quel bambino abbandonato per ordine di Laio, che era il padre dello stesso, era proprio Edipo. A questo punto Sofocle introduce il metaforico atto dell’accecamento, come l’impossibilità Platonica di sostenere la magnitudine della conoscenza divina, e della sofferenza che ne deriva.
In conclusione possiamo dire che nonostante nelle due opere il tema della sofferenza sia declinato in modi diversi, legati soprattutto al contesto, l’uno dell’arcaica monarchia Greca, l’altro del ceto agrario della Russia di epoca zarista, si possono individuare delle similitudini: in entrambi i casi la sofferenza non può essere sconfitta; è vero che nel caso di Il’jusa essa è alleviata dall’amore umano, ma non è risolta. Inoltre l’origine della sofferenza viene attribuita da entrambi gli autori alla divinità, quella greca in tono punitivo, quella cristiana in un significato finalistico.
Razionalismo e irrazionalismo
Il razionalismo e l’irrazionalismo possono essere visti come due atteggiamenti che l’essere umano assume a seconda di ciò che sperimenta nel corso della sua vita. La voce del razionalismo esprime una sicurezza derivata dalla certa affidabilità della logica, idonea per investigare i campi matematici e scientifici della conoscenza; l’irrazionalismo è l’espressione dell’investigazione dell’ignoto, di tutto ciò che non rientra nelle categorie mentali dell’umanità, sia per quanto riguarda l’esterno, sia per quanto riguarda l’interiorità dell’animo, l’unica in grado di indagare le emozioni e la morale.
Nei fratelli Karamazov questa dualità si incarna con il contatto di diversi personaggi. La voce predominante della razionalità è Ivan, il quale pur subendo un drastico cambiamento durante il processo di suo fratello, rimane l’ambasciatore per eccellenza dell’ateismo scientifico di stampo illuminista; i personaggi caratterizzati dall’irrazionalità sarebbero molteplici: Fedor Pavlovic per la sua dissolutezza e mancanza di controllo sulle sue pulsioni, Dimitrij Karamazov che è schiavo della passione per Grusen’ka, o il servo Smerdjakov che nonostante la sua intelligenza e la sua freddezza per conseguire le sue ambizioni arriva all’autodistruzione; tuttavia poiché questo tema rientra nel grande discorso sull’esistenza di Dio, ritengo che, come nel caso del capitolo “Umano vs divino”, sia il caso di scegliere come controparte il fratello Alekseij. Egli per tutta la durata del romanzo non perderà mai la sua fede in Dio e nel suo inafferrabile disegno.
Ivan Karamazov rappresenta anche solo in sé stesso il conflitto fra razionalità e irrazionalità. Potremmo definirlo una figura duplice. La sua ossessione per il controllo della comprensione degli eventi lo porta ad assumere un atteggiamento logico quasi come fosse necessario a difendere le certezze del suo sistema etico e morale. Quando invece affronta il colloquio con suo fratello circa l’esistenza di un Dio leggittimatore della sofferenza umana, decide di basare le sue argomentazioni sul piano morale, arrivando alla conclusione che per l’uomo non può esistere uno scopo che giustifichi l’ingiustizia contro gli innocenti, e che quindi, almeno fintanto che sia in vita, non può che compiere l’unica decisione possibile, e cioè cercare di spiegare gli eventi in un’ottica ateista. Il perdono e l’amore incondizionato per il prossimo non sono conciliabili con la concezione umana della giustizia: questo tema è spiegato nel suo monologo dal grande inquisitore che, usando un tono prettamente razionale, definisce l’ordine creato dagli uomini per regolare la società, basato sull’illusione e sul controllo delle persone, sfruttando i loro bisogni, le loro speranze e le loro debolezze. Per Ivan, alla luce della sofferenza degli innocenti, non può esistere Dio, ma questa conclusione logica comincia a creare un baratro nella sua mente, fra ciò che accade e ciò che secondo il suo ordine etico dovrebbe accadere. Questo “discidium” culmina nella follia e nelle allucinazioni, durante le quali vede la personificazione del diavolo, che rappresenta una componente inconscia dello stesso Ivan; ciò è ricavabile perché nei suoi discorsi il diavolo si prende gioco delle idee e delle opinioni del giovane Karamazov.
Nella tragedia sofoclea l’espressione del razionalismo si traduce nell’atteggiamento investigativo e scrupoloso attuato da Edipo, il quale per affrontare la risoluzione del delitto punito dalla divinità attraverso la peste decide di dare la caccia al colpevole. La ricerca inizia con la ricostruzione dei fatti e con la convocazione dei testimoni, ma quando interviene Tiresia viene sconvolto totalmente il rigoroso approccio scientifico iniziale. Tiresia è un indovino, una figura che non apporta conoscenza attraverso il ragionamento, ma grazie allo strumento della visione. Essendo stato costretto a rivelare l’identità del colpevole Tiresia punta il dito contro Edipo, sconvolgendo ogni possibile derivazione logica: Edipo è certo della sua estraneità ai fatti e per questo motivo, con l’approccio razionale umano cerca di dare una spiegazione possibile a questa accusa, deducendo che l’unica spiegazione possibile è un tentativo di Creonte di spodestarlo dal suo trono. E’ questo il simbolo del limite umano, poiché Edipo cerca di dare una spiegazione agli eventi senza rendersi conto che a causa della sua essenza gli è completamente impossibile. Questo atto di “ὕβρις” porta il protagonista del mito a insistere nella sua cieca convinzione di innocenza, conducendolo verso il compimento del suo destino. Quando Giocasta cerca di tranquillizzarlo, Edipo cade vittima del suo stesso razionalismo, perché il trivio da lei menzionato rappresenta un indizio, una di quelle “piccole cose da cui è possibile raggiungere la conoscenza”. L’uomo che lui uccise prima di raggiungere Tebe doveva necessariamente essere Laio, e la certezza di essere suo figlio può essere data solo dall’unico sopravvissuto che risparmiò il giorno dell’omicidio. Il servo giunto presso il re, è lo stesso che portò Edipo ancora in fasce e lo consegnò al messaggero di Polibio; nell’episodio finale Edipo capisce finalmente che l’oggetto della sua ricerca, l’uomo che egli aveva condannato all’esclusione dalla vita civile e religiosa di Tebe, la causa dei mali che infestavano la città non può che essere lui. Un altro esempio di razionalismo è quello di Giocasta, che cerca di persuadere Edipo dell’inaffidabilità dei vaticini; seppure questo tentativo sembra essere una sorta di “autoconvincimento” piuttosto che una tesi scientifica sull’impossibilità dell’esistenza dei vaticini, Giocasta utilizza un’argomentazione a suo favore basata su un ragionamento logico:
un oracolo venne infatti a Laio una volta, non dirò certo da Febo stesso, ma dai suoi ministri, che sarebbe giunto destino che egli morisse per mano di un figlio che sarebbe nato da me e da lui.
Per quanto riguarda la vicenda, questi sono i versi che cambiano tutto e danno il via al crollo irreversibile delle certezze di Edipo. Tuttavia è interessante rilevare come sia una donna nell’opera Sofoclea a compiere una simile critica alla materia religiosa, e come in modo “velato” critichi le persone (i “ministri”) che si occupano di essa. Infatti il vaticinio diventa inaffidabile proprio a causa dell’intermediazione sacerdotale.
L’abiezione e la redenzione
L’intera famiglia Karamazov è stata concepita come uno stereotipo della bassezza morale russa ottocentesca. Fra le caratteristiche principali che giustificano questo giudizio si elencano le già menzionate dissolutezza e l’incontrollata libidine, portate in scena da Fedor Pavlovic nella descrizione della sua vita passata, e da Dimitrij, che si abbandona ad una festa orgiastica in compagnia di Grusen’ka la notte dell’omicidio. Inoltre questi due personaggi dimostrano di avere in comune un binomio particolare, formato dall’ambizione e l’irrefrenabile desiderio di impossessarsi di denaro, accompagnati dalla grande capacità di scialacquare ogni loro possedimento, portandoli ad assumere degli atteggiamenti simili a quelli di un “parassita”: Il giorno precedente all’omicidio Dimitrij cercherà di ottenere tremila rubli andando a chiederli addirittura alla tutrice della sua legittima fidanzata Katerina. Il fratello Ivan rappresenta la superbia intellettuale e morale, causata dalla sua popolarità nell’ambiente intellettuale russo e dalla sua istruzione, che fa considerare chiunque si confronti con lui come un subalterno. Questa stessa supponente si rivelerà essere la sua rovina, portandolo a dover affrontare una profonda crisi spirituale e il conseguente collasso psichico. Smerdjakov è l’incarnazione del nichilismo, un’esistenza alienata e completamente estranea all’amore, che senza alcun tipo di vincolo morale, è disposta a sacrificare ogni cosa, anche la propria vita, pur di raggiungere i suoi scopi.
A seguito del processo subito da Dimitrij per l’omicidio di suo padre, inizia per ogni fratello un cammino di redenzione morale, che nei singoli casi assume dei tratti e delle sfumature singolari.
Per quanto riguarda Dimitrij egli si proclamerà innocente anche dopo la lettura della sua sentenza, che lo vedrà costretto a partire per il carcere in Siberia. Tuttavia egli vedrà nella sua pena un’occasione per poter diventare un’anima “migliore”; questo bisogno di perdono e di una punizione spirituale, verrà espresso da Mitcha anche durante gli interrogatori preliminari avvenuti subito dopo il suo arresto: per tutta la vita ho continuato a far turpitudini e nient’altro, come del resto tutti noi signori…voglio dire come io solo, signori, non tutti, ma io solo, mi sono sbagliato, io solo!
I ragionamenti frettolosi, turbolenti circa la sua esistenza portano Mitcha a chiudersi in una spirale di fraintendimenti, che non fanno altro che convincere l’accusa della sua colpevolezza. Egli infatti continua a insistere sulla sua bassezza morale, sui terribili sentimenti d’odio provati per suo padre che non sono conciliabili con la sua proclamazione di innocenza.
Anche Ivan Fedorovic dovrà fare i conti col proprio sentimento di colpevolezza, nato a seguito delle conversazioni con Smerdjakov. Il servo infatti metterà in luce che proprio le sue argomentazioni filosofiche circa la licenza di agire nel mondo, hanno causato la morte di suo padre, e che lui stesso è complice se non il vero pensatore dell’omicidio. Questo conflitto fra le sue argomentazioni logiche e il suo rigido schema morale lo condurranno alla follia, facendo nascere delle visioni di un suo alter ego, una personificazione del diavolo.
L’unico fratello che riuscirà a superare questo momento di angoscia e violenza è Alekseij, che parallelamente alla vicenda di suo padre, è entrato in contatto con un gruppo di giovani scolari, anch’essi intenti ad affrontare un terribile lutto. La guida spirituale condotta da Alesa rappresenta per lui come un momento di passaggio, di evoluzione, in quanto si è definitivamente distaccato dall’ascendente che esercitava il suo mentore, lo starec, per mettere in pratica i suoi insegnamenti. La speranza nel futuro è data dall’immenso valore della solidarietà umana venutasi a creare intorno alla famiglia del piccolo Il’jusa. Si potrebbe ipotizzare che questo “lieto” esito potrebbe essere una sorta di dichiarazione di fiducia nell’essere umano da parte dell’autore russo, poiché in tutto il romanzo, questo è l’unico esempio di risoluzione positiva delle avversità presentate dalla provvidenza. Se è vero che l’essere umano non può dominare la realtà con il suo schematismo
logico, è attraverso i suoi sentimenti che può trovare la forza di resistere alla vita, e così il bacio di
Cristo al grande inquisitore, non è un atto di pena della divinità verso la misera moralità umana ma
un atto d’amore umano, di un Dio diventato uomo.
Nell’Edipo Re si va incontro ad una chiara distinzione rispetto all’opera di Dostoevskij, data dalla differente concezione del concetto di consapevolezza. Per Sofocle l’aspetto psicologico è piatto, la natura di un essere umano e l’appartenenza ad una determinata categoria è determinata solamente dalle sue azioni, mentre nei Fratelli Karamazof viene analizzato il ruolo centrale dell’intenzione nell’ottica della moralità occidentale moderna. Per questo motivo Edipo, pur essendo vittima di un disegno divino perverso, è carnefice, incestuoso, una sciagura per la società Tebana. Dopo essersi reso conto della sua colpevolezza si acceca; un motivo che si cela dietro questa azione non può che essere ovviamente autopunitivo come sottolineato da Edipo stesso nel verso “O luce, possa io vederti per l’ultima volta ora”. Un altro motivo è invece metaforico e si ricollega al suo confronto paradossale con Tiresia, in cui attraverso un “gioco” letterario con i verbi sensoriali della vista, Sofocle sottolinea che chi non vede scruta il futuro, e chi vede è completamente cieco all’infuori del presente. La cecità rappresenta un’evoluzione per il personaggio di Edipo, che non è più un semplice essere umano, ma un conoscitore della sapienza divina; infatti nell’Edipo a Colono, nell’epilogo è rappresentata la sua ascesa fra le divinità. Tuttavia per compiere questo passaggio è necessario raggiugere il massimo grado di sofferenza, sia a livello morale che a livello fisico. Edipo viene ripudiato e cacciato dalla città che lui regnava e porta su di sé la fama di peccatore maledetto dagli Dei, ma lui accetta questo destino avendo conosciuto la sua vera identità.
La reazione altrettanto tragica è quella di Giocasta, incredula e incapace di accettare la realtà, raccontata nell’esodo.
Quando infatti in preda alla follia passò oltre dentro il vestibolo, si scagliò sul letto nuziale, strappandosi la chioma con le mani. E come entrò, sbattuta la porta dall’interno, chiamava Laio morto ormai da tempo, ricordando l’antica semenza per mano della quale sarebbe morto e avrebbe lasciato lei a generare al proprio figlio un’infelice procreazione di figli. …. Lì dunque vedemmo la donna appesa, stretta in attorti lacci.
Quando Edipo giunge presso il corpo di sua madre, prende uno spillo dai suoi capelli e lo percuote ripetutamente contro le sue palpebre affinché nell’Ade non sia in grado di riconoscere i suoi genitori e non debba affrontare gli sguardi dei suoi cittadini.
Io dopo questa infamia avrei dovuto guardare loro con occhi fermi? Certamente no!
Per completare la sua redenzione chiede poi a Creonte di rispettare la volontà di Apollo e di esiliarlo dalla città, così da potersi ritirare sul Citerone, lontano da ogni società; l’unica richiesta che fa è quella di avere pietà delle sue figlie, descritte come povere fanciulle che senza la cura di loro padre non avrebbero alcun mezzo per sostenersi, a differenza dei figli maschi.
γνῶθι σεαυτόν
Il percorso Evolutivo di Edipo, come già menzionato nei capitoli precedenti risulta essere graduale. L’Edipo Re ne rappresenta soltanto una fase, in cui il climax della tensione cresce fino a compiersi all’apice della tragicità, quando Edipo raggiunge la conoscenza di sé. La ricerca di Edipo in realtà è sempre stata questa, sin da quando egli aveva deciso di lasciare i genitori Merope e Polibo per recarsi a Delfi, perché una persona di Corinto lo aveva accusato di essere stato adottato. Tuttavia, anche la sua indagine sull’uccisore di Laio va considerata un’indagine sulla propria identità, poiché pur non essendo consapevole come quella svolta presso Delfi, Edipo sta effettivamente indagando su sé stesso. Perfino quando la sfinge gli pone il suo indovinello, ed Edipo risponde correttamente, sceglie come risposta “l’uomo”, ma l’interrogativo su chi è l’uomo rimane irrisolto. La sconfitta della sfinge costituisce solo un’effimera illusione della vittoria dell’intelletto sul soprannaturale, quando in realtà la tragicità della scoperta, in una rilettura moderna, sta nel fatto che Edipo scopre di essere altro da sé; come avviene per Ivan Karamazov durante la sua crisi spirituale, tutte le certezze derivate dalla logica della mente svaniscono e conducono alla rovina il personaggio coinvolto.
La figura di Edipo risulta essere inoltre assimilabile a quella di un vero proprio viaggiatore, in quanto il suo cammino verso la conoscenza di sé assume i tratti di una peregrinazione fisica oltre che spirituale, dalla traiettoria circolare: il suo viaggio comincia con l’essere abbandonato lasciando Tebe, poi si conclude proprio a Tebe. In questi tratti mi sembra possibile compiere un parallelo tra la figura di Edipo e quella di Odisseo, ma non tanto quello Omerico, quanto piuttosto l’Ulisse dantesco.
Né la dolcezza di figlio, né la pietà
Del vecchio padre, né ‘l debito amore
Lo qual dovea Penelopé far lieta
Vincer potero dentro me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore
Inferno, canto XXVI
Allo stesso modo, le preghiere di Giocasta sono inutili a placare la sete di conoscenza di Edipo, che proprio come Ulisse, quando con la sua imbarcazione si imbatte nel monte del Purgatorio, cade in rovina. Sembra evidente che Dante Alighieri, nella sa teorizzazione del limite umano e dell’onnipotenza di Dio abbia tratto ispirazione dalla tragedia classica, e abbia rielaborato l’intuizione che l’uomo non può fare a meno di placare la propria sete di conoscenza.
L’accecamento di Edipo simboleggia un vero e proprio atto di rifiuto del sapere di grado superiore. Come nel mito della caverna di Platone, quando uno dei prigionieri è costretto fuori dalla cavità e la
sua reazione è nascondere lo sguardo dal sole coprendosi gli occhi, Edipo non è in grado di sostenere
la visione della realtà: deve evolversi, adattarsi.
I fratelli Karamazov potrebbero essere assimilati ad un’opera di ricerca sull’essere umano in tutte le sue sfaccettature, nelle sue relazioni con i propri simili e il suo comportamento davanti alle proprie debolezze, come i vizi e le pulsioni, ma anche verso la divinità. Dal punto di vista religioso ed etico, Dostoevskij espone la sua teoria in diversi passi del suo romanzo, ed emerge come l’elemento più importante per la sua filosofia sia la pietà verso il prossimo. Ad esempio, nel capitolo in cui l’autore riporta le memorie scritte di Alekseij sulla vita dello starec Zosima, racconta che la sua conversione sia avvenuta proprio a seguito di un atto di pietà nei confronti di un suo sottoposto all’interno dell’esercito, che aveva brutalmente percosso e umiliato. La pietà però non è solamente uno strumento di confessione, ma, come argomentato da Ivan Fedorovic, può essere anche un fattore che determina l’allontanamento da Dio. Nel capitolo “Indagine sulla sofferenza degli innocenti” abbiamo visto come la categoria degli indifesi per Dostoevskij non dovrebbe essere in alcun modo danneggiata, nemmeno se tale danneggiamento dovesse concorrere all’armonia divina sulla terra. In questo caso la ribellione dell’uomo, se volessimo interpretare così le argomentazioni morali di Ivan, che del resto si trovano proprio nel capitolo ribellione, non consiste nel volersi impadronire di un sapere proibito, ma nel non accettarlo. La categoria morale umana è posta in uno stato di superiorità nel conflitto con la giustizia divina. Un’altra conseguenza di questa ribellione è che, una volta appurata logicamente e moralmente l’impossibilità dell’esistenza di un Dio, quanto meno concepito come un Dio benefattore, e quindi anche di un diavolo, attenendoci sempre al ragionamento materialista di Ivan, la conseguenza diretta è che l’uomo è assolutamente libero di compiere ogni azione che voglia all’occorrenza. Del resto, questa concezione pessimistica dell’uomo si deduce dalle argomentazioni dell’inquisitore: un mondo in cui si venisse a realizzare il libero arbitrio di Dio, e che quindi non vedrebbe l’imposizione della fede dall’alto, sarebbe un mondo governato dal caos; la menzogna della Chiesa, fondata sui bisogni primari, di miracolo e sottomissione dell’uomo, ne garantiscono la sopravvivenza che sarebbe altresì impossibile. L’uomo è un animale fragile, ma allo stesso tempo sadico contro i più fragili.
Vedi, io torno a insistere, sulla scorta dei fatti, che c’è in molti uomini una facoltà del tutto speciale: voglio dire una passione per torturare i bambini, ma i bambini soltanto… In ogni uomo c’è una fiera, la fiera dell’irascibilità, la fiera dell’infocamento carnale ai gridi della vittima torturata, la fiera dell’incontinenza senza freni…
L’unico esito che lascia un lieve barlume di speranza nell’opera è la concezione dell’amore laico, solidale, senza alcun vincolo di forza, basato soltanto dalla genuina benevolenza verso i propri simili, anche in questo caso rappresentato dalle creature più fragili. Gli amichetti di Il’jusa diventano una bolla che trae in salvo il piccolo malato da tutte le nefandezze di un destino crudele, dalla difficile condizione economica, dalle ingiurie che suo padre subisce, dall’assenza di una madre amorevole, poiché affetta da un’infermità mentale. Mentre tutto il mondo gli crolla addosso, mentre la sua breve vita sta giungendo al termine, i suoi compagni, gli stessi che lo avevano inseguito lungo il fiume della città e che lo avevano preso in giro, si stringono intorno a lui, alleviando le sue sofferenze.
Ritengo che questa narrazione dimostri la concezione di Dostoevskij riguardo all’essere umano, preso singolarmente o in un contesto comunitario. Se da un lato, facendo i conti con le proprie fragilità da solo, l’uomo si riduce all’autodistruzione, quando si trova in un contesto solidale, che non sia forzato da alcun tipo di vincolo religioso, come la cristiana virtù “dell’amare il prossimo tuo come te stesso”, ma che spontaneamente nasca da quanto c’è di buono nell’animo umano, allora, pur rimanendo succube degli eventi che gli capitano, l’essere umano può placare la sua sofferenza.
Francesco D’Andrea, 3C
a.s. 2023/2024
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