Ovunque, quando la voce canta, è Orfeo
L’ancestrale aspirazione cui anela un poeta è gettarsi nel vulcano come fece Empedocle pensatore, come un titano, un Prometeo decaduto che sfida gli dei, ma soprattutto come un uomo che percepisce la potenza del cosmo, la sovverte, sente di appartenervi ma soffre l’oscurità che sale dal fondo. Un tessuto musicale, cadenzato e rarefatto, che ricerca ora l’armonia, ora il caos, ora le figure, ora le dissonanze. Empedocle sparisce alla vista dei mortali, compie il viaggio cosmico, dissolve il suo IO, per confluire nel SUBLIME. Essa non è la fine, è il legno che si riunisce alla nave.
Se tutto gracchia intorno e si odono solo clangori, ci chiediamo che fine abbia fatto l’armonia …
Quel giorno, in Tracia, tutto s’acquietò, ogni cosa tornò al suo posto in un incastro perfetto e poté levarsi il pianto di quel bambino che magicamente fece radunare uccelli intorno alla sua culla e anch’essi silenziosi per ascoltare quello che era più simile ad un canto primordiale piuttosto che ad un vagito. Ogni cosa egli conduceva con la sua voce, in felicità e questo fu il preludio della sua futura maestria. Queste le pieghe di una storia che si fa eco attraverso l’eternità, un inno impresso nel pentagramma del suo destino che suona e saprà risuonare anche oltre i confini della morte. Selvagge bestie si posavano ai suoi piedi trovando pace e boschi interi si radunavano intorno a lui e cessava anche il fragore del rapido torrente, e l’acqua fugace, obliosa di proseguire il cammino, perdeva il suo impeto. Orfeo, nelle cui vene scorreva il sangue dell’Olimpo, toccava e trasformava il cuore di chi ascoltava il suo canto, la sua poesia, conducendolo in un viaggio di pura meraviglia. L’apice di quella vita, dove il suono riecheggiava incontrastato e perfetto, lo condusse nel boschetto sacro, dove gli occhi si incrociarono e si riconobbero come l’unione di due perfette metà di un’anima. Tutto divenne contorno, esplose l’amore con i suoi più alti canti fino al giorno in cui mentre vagava per i prati in compagnia di una schiera di Naiadi, morì, morsa al tallone da un serpente e la meravigliosa luce di quel giorno senza fine lasciò il posto alla notte più profonda. Orfeo fu testimone di quella scena: impazzì perché non poteva più vivere senza la sua Euridice. Determinato a riaverla, nelle gole del Tènaro, persino, nelle porte profonde di Dite, penetrò, nel bosco cupo, scuro di una nera paura: e giunse fino ai Mani e al re tremendo e ai cuori che non sanno farsi docili alle preghiere umane. Grazie alla sua lira ed al suo canto Ade e la sua sposa Persefone si commossero, le Erinni piansero, si fermò anche la ruota di Issione e per la prima volta nell’Oltretomba si conobbe la pietà perché “a introdurre l’alfabeto … lo aveva imparato dalle Muse”. Ottenne ciò che non era possibile ma ad un’unica condizione: avrebbe dovuto precedere la sua sposa per tutto il cammino fino all’uscita dall’Ade senza mai voltarsi a guardarla. Orfeo malauguratamente lo fece e, all’istante, la donna fu risucchiata nell’oscurità. Euridice è ormai una stagione della vita, un sopraggiunto passato in cui si avverte inevitabile un incolmabile vuoto che conduce in sé la giovinezza, la danza, la musica e la morte già dentro la vita. C’è dunque bisogno di scendere nell’abisso, immersi nell’oscurità più densa che ognuno abbia mai conosciuto, attraversare vivi la regione della morte e penetrare l’assenza. C’è bisogno dunque di affrontare i demoni cercando la luce, temere la luce in quanto ombra e saper andare oltre. E se l’invisibile altro non è che un grado superiore della realtà, allora è possibile rivendicare chi abbiamo perso come facente parte di noi, accettare una sofferenza che si faccia attiva, innescando il processo di trasformazione dal manifesto all’incorporale. La poesia crea una forma, un giardino, in cui i morti, liberi dal bisbiglio dei terrestri, abitano ed Orfeo ci aiuta a cantare sulla morte parole di vita, con la sua musica, con la sua poesia animata da una forza invisibile. Chi tra noi ricerca la giusta parola, quella che era sempre stata dentro ma non riusciva a trovare la via, quella che attendevamo per “superare la barriera del senso, per attingere alla dimensione del suono incontrastato”, allora questi sono coloro che desidererebbero ricongiungersi all’attimo in cui la poesia rivelò la potenza magica del suo canto per il tramite della cetra, della lira e della voce di Orfeo. La sacralità della parola esiste per dire, mentre sembra che le cose stesse esistano al mondo per essere dette. Per magia divengono impasto di poesia e carne e noi stessi, nonostante l’abito della transitorietà, esseri caduchi per eccellenza, diveniamo un tutt’uno portando in noi il seme di un’eternità conferitaci dall’armonia, dal suono ricercato e perfetto.
In un cielo notturno e buio dell’estate, la luminosa Vega si palesa ai miei occhi insieme a tutta la costellazione della Lira ed in quel momento mi attraversano come fendenti le molteplici luci che brillano in ciascuna parola, le loro linee melodiche e coloro che furono visti danzare vennero giudicati pazzi da quelli che non potevano sentire la musica. Non esistono più le dimensioni del basso e dell’alto, poco conta il tempo degli orologi quando ogni cellula del corpo è pronta ad accogliere l’invito del Sommo Poeta a prendere parte al Convivio, imbandito con vivande e pane preziosi, per trasumanar verso il Sublime. Riesco a sentire il battito del cuore e la forza del sangue che fluisce nelle vene e in quell’eterno, agognato ed inimmaginabile istante retaggio di un antico passato, mi sento come quel legno che si ricongiunge alla nave ed anch’io imparo a morire … la poesia parla a chi saprà e vorrà ascoltarla nella perfetta successione di parole ritmicamente armoniche. Ovunque, quando la voce canta, è Orfeo.
Riccardo dell’Uomo d’Arme 2B Liceo Classico
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