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Natale in tempo di guerra

Emanuele Savi, VD anno scolastico 2023/2024

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Natale in tempo di guerra

CAPITOLO I

Era il 25 Dicembre e la guerra infuriava in ogni vicolo, su ogni strada, in ogni città di ogni regione di un solo grande paese. Era passato circa un anno da quel 24 Febbraio in cui ebbe inizio “L’operazione speciale”, come definita dal nemico, volta a denazificare e a demilitarizzare un popolo, la cui colpa era quella di essere indipendente. La sacralità cristiano-ortodossa del Natale veniva assiduamente calpestata dai carri armati e rasa al suolo dalle bombe che davano prova evidente di un conflitto in corso; un conflitto mosso dall’odio e dall’invidia di colui che per decenni, tramite un potente organo di propaganda, si presentava come garante dell’incolumità e della libertà e i suoi cittadini fratelli di una popolazione che stavano decimando. Le sirene ormai erano diventate una consuetudine della quotidianità, così come le esplosioni che pur se lontane erano vicine, sotto i cui suoni ogni sera si addormentava l’intera nazione con la viva speranza in dio di potersi risvegliare la mattina seguente. Predominava tra le persone la stanchezza di vivere una vita così incerta, ma proprio nella stanchezza si delineava la determinazione di voler riaffermare la propria emancipazione anche a costo della vita. Una vita che nel paranormale però non riusciva ancora a trovare del normale; il Natale si prospettava essere un altro giorno di guerra e la volontà di non festeggiarlo era dovuta sia all’impossibilità di farlo sia al costante pensiero che andava ai soldati, agli eroi che combattevano per un’ideale patriottico e familiare, con un solo scopo: porre fine alla guerra e al massacro sia militare che soprattutto civile e ritornare vivi a casa. La gente pertanto cercava di abbattere i muri che si erano costruiti nel corso degli anni, muri legati a ideali politici, linguistici, ecclesiastici, riunendosi nelle case o nei rifugi antiaerei, come numerose famiglie, commemorando i defunti e consumando il dono della fratellanza, lì dove niente e nessuno poteva raggiungerli…

CAPITOLO II

Andrij si era alzato presto quel giorno, ancor prima del sole; gli incubi gli impedivano di dormire e nonostante i futili tentativi del ragazzo di riaddormentarsi, questi lo perseguivano. Le persone nel rifugio ancora riposavano, chi sdraiato su un materasso, chi sul cemento con la giacca che fungeva da coperta, chi utilizzava l’altro come cuscino; Il ragazzo data l’impellenza nel lasciare la casa lacerata dalle esplosioni, era riuscito ad agguantare solamente con sé un giubbotto in pelle, che aveva regalato lui il padre per il suo compleanno, le scarpe del nonno ed un filone di pane. Gli dispiaceva non essere riuscito a prendere i suoi giochi ma la paura del momento, lo aveva fatto illudere di essere un adulto nei panni di un bambino, dovendosi prendere cura della sorellina più piccola Katia di cinque anni. Andrij era un ragazzo di dodici anni, alto ma minuto fisicamente. Viveva con la famiglia a Mariupol’ dal 2014, fasi iniziali di un conflitto che sarebbe degenerato otto anni dopo, ma la guerra che c’era nel Donetsk, Lugansk e Crimea non li aveva raggiunti eccetto qualche esplosione in lontananza; questo bastò per animare in loro la volontà di far ritorno a Buča, ma le necessità lavorative del padre, essendo lui parte del PNU, lo vincolavano a rimanere lì. Tuttavia, conducevano una vita modesta, naturalmente non mancavano disagi economici ma questi non influivano sulla vita spensierata e fanciullesca di Andrij né su quella di sua sorella. Infatti, fino al 24 Febbraio frequentava una scuola, aveva degli amici, una famiglia e nel fine settimana andava a trovare i nonni nella loro dacia a Bachmut, per riposare dalla frenetica vita cittadina. Fino al 24 Febbraio poteva passeggiare liberamente senza tenere conto di un possibile attacco o del coprifuoco; fino al 24 Febbraio era libero, libero di vivere, di poter vivere e di decidere di vivere, ma la guerra e tutto ciò che essa ha poi portato, lo avevano spogliato di ogni bene rendendolo inerme di fronte al dolore e impassibile al conforto…Il padre, sin dai primi istanti dell’inizio dell’invasione, spinto dall’ideale patriottico di difendere il proprio paese, i propri figli, la propria famiglia e indirettamente coloro che poltrivano e sedavano sui cadaveri dei soldati, usurpandone le sostanze o di coloro che combattevano contro i loro stessi concittadini, intenzionati ad accogliere l’aggressore, si era arruolato dapprima nelle forze di difesa territoriale e circa un mese dopo era stato inviato al fronte, come parte della fanteria; da quel giorno Andrij non lo aveva più visto. Di rado riceveva sue lettere, rincuorandosi ogni qual volta leggeva “Stiamo vincendo” “I nostri procedono” “Tra poco ci rivedremo”; e in quell’eterna attesa di ricevere notizie dal padre sperava di leggere, in una di quelle righe di una di quelle lettere, “La Guerra è finita”. Ma la vita, si sa, non è sempre dolce né sempre a colori e anche quando sembra esserlo, ha in serbo amare sorprese. Una sera infatti, il 25 Maggio, Andrij, mentre stava disegnando, sentì chiamare al telefono; di proposito non rispose credendo che fosse sua nonna, che per l’ennesima volta si era scordata un piatto o cose simili, ma dopo pochi attimi di silenzio, grida e urla irruppero nella casa. Andrij scosso nell’animo, si precipitò al piano terra per controllare cosa fosse successo e al vedere la madre con le lacrime agli occhi, in preda ad un pianto isterico che a tratti assomigliava ad una risata, capì che la nonna non si era dimenticata un’altra volta il piatto né che la Guerra era finita, ma anzi aveva causato un’ennesima vittima, la più importante tra tutte per lui: suo padre. Corse immediatamente in camera sua, prese le lettere che gli aveva inviato fino a quel momento, le addossò al petto ed un pianto frenetico lo travolse. Nel suo cuore si aprivano voragini incolmabili ed inricucibili , rendendosi conto che non avrebbe più potuto riabbracciare suo padre o dirgli un semplice seppur prezioso “Come va?” oppure “Ti voglio bene papà”; aveva sperato che una sera sarebbe ritornato sano e salvo, vivo e lo avrebbe riabbracciato e quell’abbraccio sarebbe durato in eterno tornando a vivere come prima. Ma di lui rimanevano solo dei fogli marchiati d’inchiostro che acquisivano un valore inestimabile.

CAPITOLO III

Non riuscendo a dormire, Andrij, cercando di non svegliare Katia raggomitolata sulla sua giacca, uscì dal teatro, che veniva utilizzato dalla cittadinanza come punto di raduno e protezione durante gli allarmi antiaerei, intenzionato a respirare dell’aria pulita essendo stato impossibilitato nel farlo per quattro lunghi giorni, passati nell’agonia di un’incessante sequela di bombardamenti. Fiocchi di neve cadevano sul suolo attecchendosi ad esso come soldati raggiunti dai proiettili. Andrij osservava ammainato, non aveva mai visto una neve così abbondante e per colmo di sfortuna non poteva goderne a causa della guerra. Passeggiava per le strade di Mariupol’, percorreva anche i vicoli più angusti, a lungo temuti, che ora abbondavano di randagi, ridotti all’estrema magrezza dal freddo e costretti a procacciarsi il minimo indispensabile per sopravvivere in quell’inferno. Non esisteva la felicità; il Natale era divenuto un giorno come gli altri, un giorno di instabilità, un giorno di inverno, un giorno di guerra in cui mancava il conforto assicurato dalle persone amate, ma di persone amate Andrij non ne aveva più. Ripercorreva la strada che a lungo aveva percorso con la madre, quando la vita era più lieta, la spensieratezza, forse troppa, non la si apprezzava e perciò rimuginava e si pentiva per tutti quei litigi, incomprensioni, offese e rabbia senza un motivo valido ma che allora appariva concreto, volendo tornare nel passato, riviverlo ed insegnare a sé stesso la capacità di sapere apprezzare e sfruttare ogni attimo irremeabile della vita. Le strade erano vuote e ad ogni passo che faceva si intravedevano, sotto il sostanzioso strato di neve, corpi inermi, volti mummificati e difficilmente riconoscibili; donne, bambini, uomini che erano morti contro il volere del fato, per un fine futile agli occhi dei semplici cittadini ma enorme di fronte a quelli dei grandi capi intenti a giocare ad una interminabile partita a risiko, sacrificando esseri umani come soldatini… Si soffermò a guardare una bambina di circa dieci anni, vestita di un bianco puro come l’innocenza della sua infanzia, di chi una infanzia in fin dei conti non la ha mai avuta, abbracciata alla madre, con volto atterrito, che la stringeva con le sue mani fredde come coloro che l’avevano uccisa, come per proteggersi dall’impatto e la madre frapposta tra esso e la bambina aveva china la testa su quella della figlia sfiorandole la fronte con le labbra. Le fissava, immaginava la scena del come tutto ciò fosse avvenuto, provava pietà non tanto per le vittime quanto per le menti di questa tragedia, per gli esecutori, per coloro che li avevano supportati e incitati nel compiere tale atto disumano; aveva ben chiaro che quella guerra non era una guerra di salvezza da presunti fascisti o nazisti, ma una carneficina architettata e finalizzata allo sterminio della popolazione civile, delle semplici persone e in particolare modo dei bambini, dei giovani, futuro della nazione. Rivedeva in quella fanciulla, sua sorella che, in quanto ancora nel fior fiore della sua tenera età, non riusciva del tutto a capire cosa fosse effettivamente la guerra, e anche se lui cercava di trasmetterle una visione alquanto ottimista in quel periodo così cupo, non sempre riusciva nell’intento essendo ancora lui stesso un bambino. Si chiedeva cosa li spingesse ad un così ostinato odio nei confronti di esseri umani uguali a loro con l’unica differenza di impugnare un’arma e avere la possibilità di premere il grilletto o pulsante non ravvedendosi delle azioni che tale gesto potrebbe provocare…Le stesse persone che quel 27 Novembre avevano dato ordine di bombardare le palazzine in cui viveva Andrij, con mig 35. Del quartiere non rimaneva nulla di integro se non qualche mattone o qualche giocattolo di qualche bambino scaraventato all’esterno dell’abitazione per la furia dell’onda d’urto. La guerra e tutti coloro che la vogliono gli avevano sottratto il padre sul fronte e la madre in casa in uno dei soliti attacchi del 27 Novembre. Lui e la sorella erano vivi per miracolo, ne uscirono quasi illesi con qualche graffio lui che aveva cercato di proteggere Katia con il suo corpo, e lei con un po’ di paura. La madre invece era stata, o per puro caso o per effettiva intenzione, centrata in pieno dal missile e di lei non rimaneva nulla, eccetto un ciondolo raffigurante la sua famiglia. Andrij era un orfano della guerra. La guerra lo aveva privato di ogni affetto, delle persone che gli volevano veramente bene, e anche se aveva ancora i nonni, costoro erano nella zona di occupazione e non riuscivano a raggiungere i nipoti. Era costretto ad affliggersi nel dolore solo, solo, solo….

CAPITOLO IV

Vedeva le vetrine dei negozi, addobbate con ghirlande e festoni natalizi poiché in fondo nessuno si aspettava un’escalation così violenta del conflitto. Giocattoli e caramelle a terra, calpestati, bruciati, inutilizzati…. Nessuna gioia in quel clima di mestizia. Si immaginava le persone che entravano nelle botteghe acquistavano regali donando sorrisi ai propri cari, di chi cari non ne aveva più, e celebravano il dono natalizio con sorrisi, canti e balli. Ora di lì uscivano solo anime, che cercavano rifugio, di chi un rifugio non ne ha più. Diveniva sempre più buio nel suo animo e ad ogni passo il sole s’avviava a tramontare; giunse finalmente a casa. Una casa non c’era più ma l’importante erano i bei ricordi passati insieme con la famiglia e le emozioni conservate al suo interno. Non pensò, non disse nulla. Si limitò ad accendere una candela, la baciò e fece una preghiera. I nemici però non tengono conto della quiete, anzi fanno il possibile per straziarla e interromperla, e nemmeno della pace natalizia, delle tradizioni e dei valori di comunione e tregua impartiti loro dall’ortodossia, colmando il cielo di razzi. Le sirene rimbombavano in tutta la città e già nell’arco di pochi secondi si sentivano esplosioni e urla nelle circostanze. Andrij uscì con estrema rapidità dell’edificio e si diresse verso il teatro. Corse fino allo sfinimento, fin quando le ginocchia non riuscivano più a reggere il corpo e anche in quella occasione continuava a correre. La bufera di neve si stava acuendo, i corpi inermi che giacevano sulla strada scomparivano sotto di essa. Le luci dei lampioni mano mano si spegnevano e le tenebre iniziavano a dilagare nel cielo.

CAPITOLO V

Finalmente arrivò al rifugio. Le persone al suo interno cominciarono ad accendere candele per celebrare il Natale, secondo costume ortodosso, cantando e soprattutto pregando dio di farli sopravvivere e se proprio dovesse richiamarli a sé , non dia soddisfazioni ai nemici ma faccia sì che si addormentino in eterno nella speranza di una nuova vita, priva di violenza, di fame, di povertà, di odio. Poi preso il pane, lo spezzarono e divisero tra costoro in atto di comunione. Katia appena vide Andrij gli si lanciò incontro in un abbraccio così caloroso da riscaldare l’ambiente gelido. Non disse nulla. Affondò le sue manine nel suo collo e gli sussurrò all’orecchio “Ti voglio bene”. Andrij cercò di trattenersi dal pianto ma qualche lacrima gli levigò comunque il viso pensando a tutti gli ostacoli superati insieme alla persona più cara che gli era rimasta: sua sorella. Capì che il Natale non era solo regali o il mangiare troppo fino allo sfinimento; il Natale era in quel rifugio. Le persone parlavano, ridevano, cantavano, cercavano di trovare dell’ottimismo in quel clima così tetro senza regali o grande quantità di cibo. Il Natale è amore, supporto ed è un qualcosa che non si può comprare ma si può solo apprezzare con il tempo in compagnia di persone care, non per forza familiari. Quello che conta sono i bei ricordi e la volontà di crearne nuovi. Questo è il Natale… commemorare chi non c’è più e valorizzare chi ci sta a fianco e chi siede alla nostra stessa tavola. La guerra però neanche di fronte al benessere delle persone si ferma anzi ne soffre e fa di tutto per estirparlo. I bombardamenti e le esplosioni infuriavano non più in lontananza ma sempre più vicine, sempre più concrete e percepibili. La gente si abbracciava e continuava a cantare. Andrij strinse a sé, ancora di più, Katia guardando diritto, oltre una finestra. Immaginava, vedeva i suoi genitori che gli si avvicinavano a braccia aperte, lo tranquillizzavano, lo rincuoravano……finché non avvenne L’Esplosione. Andrij e Katia ora erano felici, stanchi ma felici, potevano finalmente riabbracciare i loro genitori in un abbraccio che sarebbe durato in eterno…

La vita è difficile da capire, dona delle emozioni che distrugge con altre, ci dà l’opportunità di viverla ma, alle volte, ci schiaccia sul più bello e, nonostante ciò, siamo molto affezionati a questa e cerchiamo di preservarla da coloro che la vogliono per sé. È fragile, come una bambina, indifesa e di fronte alla guerra non può nulla. Non si ribella, è docile, ubbidisce, se ne va se richiesto e non bada alle persone perché su di lei domina un qualcosa di più imponente della guerra: il Fato.

Emanuele Savi, VD
anno scolastico 2023/2024

 

 

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