Leggiamo attentamente questi due brani, tratti da Zola, Nanà (1880): Nanà all’apice e Nanà alla fine della sua carriera e della sua vita.
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Un brivido corse per tutta la sala. Nanà era nuda. Era nuda ed era audacemente tranquilla, certa com’era dell’onnipotenza della sua carne. Un semplice velo l’avvolgeva; le spalle rotonde, i seni d’amazzone, i cui capezzoli rosa apparivano diritti e rigidi come lance, i larghi fianchi voluttuosamente dondolanti, le cosce di bionda esuberante, tutto il suo corpo si indovinava, si vedeva, sotto il tessuto leggero, bianco come schiuma. Era Venere nascente dalle onde e che ha per velo nient’altro che i capelli. Quando Nanà alzava le braccia, si vedevano, alla luce della ribalta, i peli d’oro sotto le ascelle […]
-2-
Nanà era sola, con la faccia volta in alto, nella luce della candela. E non era che un carnaio, un ammasso di umori e di sangue, una palata di carne marcia gettata là su un cuscino. Le pustole avevano invaso tutta la faccia, le bolle si toccavano l’una con l’altra, e, putrefatte, spappolate e di un color grigiastro come il fango, sembravano già muffa di terra, sembravano una poltiglia informe in cui non era piú possibile distinguere i lineamenti. Un occhio, quello di sinistra […]
(Zola, Nanà, 1880)
Nel primo brano, Zola sembra lasciare liberi, come nel cinema (o un certo tipo di cinema) di scegliere lo sguardo. Chi legge può identificarsi con lo sguardo voyeuristico che si nasconde dietro la prima descrizione della protagonista, oppure no. Può scegliere tra associarsi all’eccitazione dell’uomo-occhio, presumibilmente maschio, o invece rallegrarsi per il trionfo della popolare attrice, che si guadagna da vivere con la sua bellezza, abilmente e con intelligenza.
Di fronte alla scelta (qualsiasi scelta), il lettore è liberato dalla coercizione del realismo: può quindi immaginare, ancora, una storia (destini, trasformazioni, ipotesi di eventi, connessioni logiche o illogiche).
Ma l’immagine finale (2) di Nanà non lascia al lettore libertà. Voyeurismo e descrizione qui sono legati.
Tra l’azione del mostrare e la miopia ossessiva favorita dal ‘buco della serratura’ o dall’oscurità del teatro c’è un rapporto che l’unilateralità erotica oltrepassa molto facilmente: la pornografia (nel senso comune del termine) fa senza troppa difficoltà a meno di una storia, infatti.
Zola se ne libera – della possibile, implicita pornografia – accostando, o se si vuole, mostrando la determinazione di Nanà a proporsi deliberatamente come oggetto sessuale, e al tempo stesso inglobando l’elemento fantastico nella decomposizione finale: introduce “il genere fantastico” nella sua forma più caratteristica, ovvero la vita di parti del corpo staccate – esattamente come il sogghigno del Gatto del Cheshire di Alice nel Paese delle Meraviglie.
Se proprio la narrazione fantastica dà vita alla vista e all’atto di essere visto, e risuscita le parti come il tutto, lascia anche che restino svincolati quei frammenti che sono presenti in realtà in ogni arte letteraria che tenda alla totalità.
La Nanà finale è cioè al margine di una fantasia, quasi-decomposta, tanto realisticamente descritta da esplodere come allucinazione (orrida, forse perversa, in ogni caso violenta, forse pulp). Manca la scelta offerta al lettore (lo svelamento dell’illusione) e prende corpo la frammentazione. Crudele nella sua dettagliata rappresentazione della morte in una donna ancora viva, essa è molto più profondamente voyeuristica della prima “descrizione” (l’inizio della “storia”): perché ci costringe a vedere. Nella sua posizione di chiusura, non si presta a una reazione sfumata o differenziata, ma tende all’uguale. La compiaciuta descrizione sembra costruita per rappresentare, piú che la donna agonizzante, la sua agonia; più che Nanà, l’odio vendicativo degli uomini responsabili della sua morte orrenda. E mentre nella descrizione iniziale del trionfale ingresso in scena di Nanà il teatro è pieno di ammiratori, la descrizione conclusiva spinge la devastazione fino all’isolamento assoluto, una specie di assoluto allucinatorio.
Lo sguardo entro cui si inscrive la descrizione scompare, e il lettore rimane solo, senza poter neppure offrire conforto alla donna morente. Non ci sono sostituti o surrogati. Se è liberato, è liberato dalla spaventosa identificazione offerta alla sua contemplazione, o meglio, che sarebbe stata offerta alla sua contemplazione se il suo sguardo fosse stato preceduto da quello di un personaggio: l’infezione contagiosa delle pustole che hanno invaso il volto di Nanà rimane imprigionata nel suo corpo.
(Liberamente basato sull’interpretazione di Bal, Descrizione e costruzione di mondi)
Dafne Murè
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