– La vita umana è un grande dovere sociale [disse Louis Blanc]: l’uomo deve costantemente sacrificarsi per la società.
– Perché? chiesi improvvisamente.
– Cosa intendi con “Perché? – rispose Louis Blanc – Sicuramente l’intero scopo e la missione dell’uomo è il benessere della società.
– Ma non sarà mai raggiunto se tutti fanno sacrifici e nessuno si diverte.
– Stai giocando con le parole.
– La confusione di un barbaro – risposi ridendo
(Herzen)
A quarantatré anni, il celebre scrittore Feodor Dostoevskij (più celebre del simpatico Herzen, da cui la citazione), compone e pubblica le Memorie del sottosuolo (1864) e ci inizia a spiegare questa specie di “concetto russo di libertà”, questo quasi-feticcio identitario dell’uomo-bambino, polimorfo e libero.
Il protagonista delle Memorie del sottosuolo scopre proprio lui, il quale è cattivo (io sono un uomo cattivo, tutti i lettori ricordano l’incipit) che la volontà è libera, libera anche di perseguire il proprio danno e la propria distruzione; che la felicità preordinata e razionale – quella che Dostoevskij aveva amato da giovane sull’esempio di Fourier e che gli valse la poi scampata condanna a morte – è peggiore di ogni infelicità, perché presuppone che la volontà non sia libera; che il rancore umano (e l’invidia, la rabbia) contro la meschina farsesca razionalità dell’azione “adatta allo scopo” induce l’individuo “libero” persino a provare il piacere del dolore, insieme con l’odio schizoide verso se stessi.
In una società abitudinaria e brutale, proprio l’uomo timido, non protetto né dalla condizione sociale, né dalla ricchezza, né da vero talento, il mediocre mite e normalmente buono, deve essere braccato da ogni lato e incalzato senza pietà dalla volgarità e dalla prepotenza che egli (l’uomo che scopre la libertà?) non è in grado di imitare né imparare (un incapace!); è costretto a ridursi nel «sottosuolo» della sua esistenza di talpa e di topo e di scarafaggio, ipocondriaco, malato, dotato di una energia puramente isterica, ultra-superfluo e debolissimo ecc.; della sua fragilità rimane intatto solo l’intelletto delirante-paranoide (ciò che è piaciuto, inter alia, al Novecento). E se tanta desolazione non fosse sufficiente, la nuova morale e la nuova “scienza sociale” (più o meno, il “positivismo”) indicavano all’umanità globale proprio quell’ideale di una mediocrità soddisfatta e potente che costituiva l’essenza dei suoi persecutori (mediocrità soddisfatta e potente, agli occhi dell’uomo cattivo, cioè dell’uomo del sottosuolo): la ribellione è inevitabile.
Per un divertente rovesciamento di (tipi di) mediocrità, chi vive nel mondo (vilipeso e invidioso, basso nel suo genere) delle persone normali si vendica provocando l’offensore; l’«uomo del sottosuolo» per sfogarsi deve cercare qualcuno al di sotto di sé (se provoca, non può davvero provocare l’arrogante e il forte, perché il libero uomo del sottosuolo fallisce, esagera, non è equilibrato, ci ripensa, non è pronto di riflessi, non affonda il coltello, o altro ancora; per certi versi egli è “buono”, perché non ammazza di botte il cavallo o il bambino, ma virtualmente e “soltanto” adulti più umiliati e miseri di lui: colui che uccide animali e bambini è il forte, non lui…). E forse per questo il nostro protagonista è cattivo, basso (nel suo genere) e codardo, vile (tutti ventagli della debolezza e della contraddizione, in questo manifesto della libertà).
Vediamo. Più in basso di lui, il nostro libero protagonista trova “solo” (diciamo che aveva molta fretta) una misera prostituta ancora giovanissima: la spaventa e la tortura (psicologicamente, si limita, non ce la fa “ad essere forte”), rappresentandole un avvenire doloroso e senza scampo, che confronta con le gioie ineffabili d’una vita onesta (in altri termini, parlandole di “cose belle e oneste”; provandole a spiegare che lei è “disonesta e degenerata”; riuscendo con abilità artistica e con ritrovata capacità di manipolatore a descrivere cosa si possa intendere per felicità, quiete e beatitudine).
Ma il giorno che la prostituta quasi bambina gli era capitata in casa, toccata dalle sue parole (quasi convinta a cambiar vita), e gli si era affidata perché la salvasse (“concedendosi a lui”, verosimilmente), il protagonista le aveva rivelato come, la sera della neve bagnata, fosse venuto da lei dopo un’umiliazione cocente; e come, tentando di disgustarla di quell’infame mestiere, avesse voluto semplicemente rivalersi dell’affronto subíto (dagli amici di successo con cui era stato a cena, per semplificare) tormentando qualcun altro (non avendo nessuna paura di lei, l’atto sarebbe rimasto impunito sul piano materiale e sociale). Per un attimo ancora l’aveva illusa, possedendola con uno scatto repentino che a lei era potuto sembrare di “amore”, e subito se n’era allontanato, e nel cacciarla, per ultimo sfregio a se stesso non meno che a lei, aveva tentato di metterle in mano del denaro. Insomma, le dice la verità. Questa è la libertà, o almeno ciò a cui la libertà umana, ovvero la personalità individuale, deve far fronte. È il primo passo della metaforica e simbolica “libertà russa”.
Che fare allora, per ripulire un mondo così squallido (tanto quello dell’uomo del sottosuolo che quello dei montoni impermeabili dalla “mente geometrica”, capaci di ammazzare – sotto determinate circostanze e non sempre così eccezionali – chiunque), per dare un senso e una sorta di nobiltà al libero arbitrio, per liberarlo almeno un po’ delle bassezze cui esso perviene?
Elias Canetti ebbe l’occasione di dire che ogni singolo pensiero nella testa di un paranoico coincide con quello di un potente temuto da qualcuno: e così costruisce l’antropologia sociale del suo uomo (o élite) di potere. Riusa malamente Dostoevskij, proietta la “psicologia individuale letteraria” degli “abissi russi” in una specie di spazio pubblico e interpretazione antropologica della storia. Naturalmente con Dostoevskij è stato fatto di tutto. Non è questo il punto.
La concezione di Dostoevskij emerge con più chiarezza direttamente in forma di uomini condensati in idee-ossessioni dotate di personalità e libertà (spesso una libertà repellente, come visto, che va raccontata e anche derisa). Dovremmo cioè saper mettere in scena queste idee pensanti e senzienti, queste idee con gambe e braccia che girano per osterie puzzolenti, strade semi deserte, lampioni, stanze squallide (scrostate, abbandonate o iperaffollate, con tende al posto di porte, cantine…), ma anche meravigliosi salotti e sale da ballo, città luminose e ammuffite dietro gli angoli delle strade. Dostoevskij può intrattenere suscitando conati di disgusto fisico di fronte alle confessioni, ai sogni patetici o perversi di alcuni dei suoi personaggi: un orrido schifo è possibile di fronte a una menzogna così diabolica da sembrare pura metafisica; qualcosa di alto (profondo) – conato cognitivo – che però è disturbante, spiacevole, melodrammatico e assurdo.
Ma tutto ciò è percepito e voluto (basta leggerlo, Dostoevskij) come realismo. Le sue idee sgambettanti (compreso il nostro patologico protagonista “eroe della libertà”) sembrano a un certo punto perfettamente reali e normali, e ci fanno sentire depravati. Perciò sono irritanti, queste “idee”, soprattutto quando ridicolizzano categorie (di bene, di normalità) universali, almeno per l’Occidente “progressista”: in effetti, i ributtanti mediocri vincenti – i “capaci” – delle Memorie del sottosuolo sono esattamente i “progressisti”, nella terminologia sociopolitica russo-ottocentesca.
Non è dato sapere cosa sia la libertà né se esista. Ma senza dubbio coinvolge suicidi, verità intollerabili, conati di vomito, indifferenza e “tiepidezza”, deliri, insonnia, malattia, arbitrio puro e semplice, abissi infimi, e amore patetico, perverso, sentimentale di tutti i tipi.
Dafne Murè (Docente “I.I.S. Jucci” a.s. 2023/2024)
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