Ʃυμφιλεῖν ἔφυν. Nati per la PHILIA
Nei giorni 8, 9 e 10 febbraio 2021 si sono svolte sulla piattaforma streamyard le Giornate Mondiali del Greco, organizzate dall’Associazione di Cultura Classica (AICC Antico e Moderno) in collaborazione con l’Ambasciata ellenica in Italia e diverse Università e licei classici laziali, con capofila lo storico “Tasso”. Il programma, ricco e denso di stimoli culturali di livello altissimo da parte di studiosi di tutto il mondo, si è snodato alternando video – relazioni a interventi artistici e didattici di tanti studenti dei licei italiani e ci ha visto protagonisti fin dal primo giorno, con cinque studenti selezionati per il concorso di narrativa Ve lo racconto io il mito!, già pubblicati in una antologia cartacea e in questo Blog nella rubrica SCRITTURA CREATIVA.
Il nostro Liceo è stato anche invitato a intervenire nell’ultima mattinata con la presentazione e la visione del cortometraggio tratto dallo spettacolo Φιλία 2020. La legge non scritta, realizzato dal Laboratorio di teatro classico Гνῶθι σεαυτόν (“Conosci te stesso”) e andato in scena il 29 gennaio 2020 presso il Teatro Flavio Vespasiano. L’evento ci ha offerto l’occasione di ritornare sul testo della rappresentazione e di ripensare alle tematiche, alle fonti e alle tecniche compositive che lo caratterizzano, non tanto per il suo valore artistico (che non sta a noi giudicare) quanto per le implicazioni formative della sua destinazione e fruizione. Così, in verità anche dietro a haud mollia iussa di alcuni colleghi e di diversi ragazzi, mi accingo volentieri, con il sano distacco del tempo che è passato, a rileggere il nostro testo drammatico e mi proverò a districarne il groviglio dei tanti significati e delle tante relazioni intertestuali che lo compongono.
Φιλία è una parola semanticamente molto densa secondo le fonti che abbiamo esaminato, anche a partire dai suggerimenti degli studi di Eva Cantarella (in particolare: L’amore è un dio. Il sesso e la polis, Milano, Feltrinelli, 2007 e Non sei più mio padre. Il conflitto tra genitori e figli nel mondo antico, Milano, Feltrinelli, 2015), ovvero: Omero, Eschilo, i lirici come Saffo, Sofocle, Senofonte.
In Omero φίλος φίλη φίλον è essenzialmente un aggettivo usato anche come sostantivo e come possessivo “mio”. Nell’ Iliade, in particolare, Priamo si rivolge nel III libro con l’appellativo di φίλη a Elena presso le mura sovrastanti le Porte Scee quando la consola e le rinnova la sua benevolenza paterna. La φιλία unisce Achille e Patroclo in un legame di vita e di morte, inscindibile. Anche Andromaca si sente legata a Ettore da un sentimento simile: egli è per lei sposo, padre e fratello. Per questo lo implora di non andare in battaglia, nel famosissimo dialogo del VI libro. Nel nostro testo drammatico il passo è riportato in modo volutamente capovolto, infatti i versi iniziali del dialogo, cioè le parole pronunciate da Andromaca, sono stati posti alla fine della scena con lo scopo non solo di aumentare il pathos nel secondo abbraccio di lei (che Ettore non ricambia), ma anche di focalizzare l’attenzione sul fatto che l’onore della guerra e della Patria, di cui Ettore è emblema, travolge e reprime la φιλία incarnata da Andromaca. Per questo abbiamo anche inserito, anacronisticamente rispetto alla vicenda iliadica, l’entrata delle guardie senza volto che strappano il piccolo Astianatte dalle mani della madre per ucciderlo: la scena è riferita dal messaggero Taltibio a Ecuba nelle Troiane di Euripide, la tragedia dedicata ai destini delle prigioniere troiane dopo la sconfitta, ma il presagio funesto è già tutto nell’ Iliade, nel personaggio di Andromaca. Il linguaggio teatrale del resto permette di usare le categorie del tempo e dello spazio in modo allusivo e analogico, invece che logico-lineare.
La vicenda troiana ha rievocato, come abbiamo accennato, un’altra figura controversa, di sfaccettati livelli identitari, che molto ha appassionato lettori e scrittori di tutti i tempi, Elena. Nel nostro testo lei appare (non a caso come per Saffo appare Afrodite nell’Inno cletico) come un’epifania divina nella Scena Quarta, evocata dal dibattimento tra le divinità sulla preminenza delle ragioni politiche del matrimonio legittimo rispetto a quelle della passione e dell’affettività. Elena incede velata recitando l’Ode di Saffo sulla cosa più bella sulla nera terra. Il componimento lirico è stato adattato alla persona loquens diversa da quella originale: Elena veniva citata infatti da Saffo come esempio dell’amore con cui Afrodite irretisce gli esseri umani, nel nostro testo invece è lei che in tono assertivo ribadisce di preferire la persona amata a qualsiasi altra meraviglia e soprattutto alle forze armate di terra e di mare schierate in battaglia. L’operazione di adattamento (e forzatura) della fonte antica ci è sembrata appropriata perché Elena rappresenta, fin dall’antichità e ancora nelle riscritture moderne, una sorta di senhal che indica al contempo la violazione di un tabù sociopolitico come il matrimonio e la sottomissione reverenziale alla potenza ctonia dell’Eros emanazione di Afrodite (si veda in tal senso il memorabile saggio di G. Aurelio Privitera, La rete di Afrodite. Ricerche sulla prima Ode di Saffo, Quaderni Urbinati di Cultura Classica No. 4 – 1967, pp. 7-58) . La sua ambiguità è divenuta un tòpos letterario ma a dire il vero l’idea di proporla come esempio di una speciale φιλία ci è venuta, come vedremo subito, dal confronto con un brano delle Eumenidi di Eschilo.
Ed eccoci alla fonte primaria, primordiale quasi della nostra Φιλία 2020, l’intera Orestea di Eschilo, appunto. L’ossatura del testo in effetti si è formata proprio sulla grande suggestione della lettura didattica, svolta dalle terze liceali dell’a.s. 2018-2019, dell’Agamennone, delle Coefore e soprattutto delle Eumenidi. Non a caso l’azione drammatica comincia con il sacrificio di Ifigenia imposto ad Agamennone dalla necessità politica e militare di muovere verso Troia la flotta immobilizzata presso le coste dell’Aulide. Ѐ questa la prima lacerazione della φιλία familiare, che innesca come è noto la furia vendicativa dei vari parenti: Clitennestra con l’aiuto di Egisto uccide il marito, Oreste, spinto dalla sorella Elettra e per ordine di Apollo, uccide Clitennestra e il suo amante Egisto; infine Oreste supplica la grazia ad Atena ma lo perseguitano le Erinni della madre. Atena. in risposta, fonda il tribunale dell’Areopago e, su base ideologica, per un sistema valoriale maschilista di riferimento, non meno primitivo, agli occhi moderni, di quello della vendetta di sangue, lei stessa coadiuva i giudici della città nell’assolvere Oreste. La finzione scenica con la sua potenza illusionista ci ha permesso di rappresentare i tratti salienti di questa vicenda per simboli, immagini, musiche e gesti parlanti. Se dunque il messaggio dell’Orestea è rimasto abbastanza fedele a Eschilo, il nostro spettacolo lo ha completamente deformato nella rappresentazione degli dei, Atena e Apollo compaiono a sostegno di Oreste, vestiti con abiti moderni perché avanzano motivazioni e punti di vista ancora attivi nella società, quali dei della πόλις e del λόγοϛ; si scontrano con Erinni inedite, per noi divinità della φιλία e non più, come per gli antichi, della vendetta e della persecuzione contro coloro che si macchiano di sangue nell’alveo familiare. Le Erinni presentano a sostegno delle proprie istanze altre figure significative del Mito, anch’esse rielaborate e deformate, come abbiamo detto per Andromaca. Apollo, d’altro canto, secondo le battute di un passo delle Eumenidi eschilee, accusa le Erinni di trascurare il matrimonio, e dunque Era, Zeus delle nozze e “Afrodite che presiede all’amore coniugale”. Il riferimento alla Elena di Saffo è immediato e perciò le “nostre” Erinni chiamano in causa Elena, proprio per dimostrare che Afrodite è tutt’altro che il nume tutelare del matrimonio. Le Erinni d’altronde, pur assumendo prerogative così atipiche, mantengono delle antichissime dee l’aspetto, la voce e l’atteggiamento orridi e viscerali, animaleschi quasi. Come direbbe Pier Paolo Pasolini, hanno una connotazione “pre-civile”.
E appunto dal suo Pilade (1966) vengono le linee caratterizzanti Atena e le Erinni. Si tratta di un un’opera teatrale, sequel ideologico dell’Orestea di cui sembra opportuno riportare un rapido resoconto. Il dramma si apre nel momento in cui Oreste torna trionfalmente, dopo l’assoluzione da parte dell’Areopago ateniese, nella città di Argo dove istituisce la democrazia e il culto di Atena come ringraziamento per l’aiuto ricevuto dalla dea durante il processo. Atena diventa quindi il nume tutelare della città e infonde su di essa, grazie alle politiche adottata da Oreste, un’impronta profondamente razionalista, modernista e capitalista, che grazie a un culto eccessivo del progresso trasforma in breve tempo il volto della πόλις . Mentre Oreste è interamente votato al futuro, sua sorella Elettra è saldamente ancorata a un passato che si rifiuta di lasciare andare. Anche Pilade, fedele compagno di Oreste, e ipostasi dell’intellettuale in crisi, non condivide la cieca ossessione dell’amico per il progresso, dato che sa che dimenticare il passato non è solo impossibile, ma pericoloso. La “profezia” di Pilade si rivela corretta e senza le lezioni impartire dalla storia, la città sprofonda nei vecchi errori: le stesse Eumenidi si trasformano nuovamente in Erinni e tornano a tormentare la città di Argo. Pilade smaschera quindi il progetto di Oreste come una falsa rivoluzione, dato che i cambiamenti che ha apportato sono solamente superficiali e non hanno modificato in alcun modo l’ordine pregresso. Ma Oreste, accecato dal potere, vede la critica di Pilade come un attacco alla sua autorità e al vecchio amico non resta che l’esilio. Pilade lascia quindi Argo, la dittatura della Ragione imposta da Atena, e si incammina alla ricerca della sua rivoluzione irrealizzabile.
Molte delle parole pasoliniane nel nostro testo vengono in più punti pronunciate, in realtà, da un altro personaggio, il vero protagonista della storia, solitario e itinerante come Pilade: Zeus. Si tratta di una figura mitica risemantizzata e desacralizzata: non sa più chi è e non si ritrova più, perduto nei millenni della sua immortalità. Come l’Immortale dell’Aleph di Jeorges Luis Borges, ha attraversato tutte le pieghe del tempo, ha visto tutto e ha vissuto tutte le vite. Ed ora è stanco, un dio stanco. Si chiede che senso abbia avuto la saggezza del πάθει μάθος, ora che gli uomini sanno tutto e soffrono ancora, ora che tutto è compituto. Pensa di aver sbagliato qualcosa, forse tutto. Così si mette da parte a guardare le storie del Mito che prendono vita in scena, sperando di ritrovare attraverso di esse le antiche certezze. Niente da fare. Buio totale. Dopo l’assoluzione di Oreste Zeus decide di scendere in campo e di farsi vedere. Decide di parlare con sua figlia Atena, la creatura migliore tra tutta la sua progenie, pura perché nata direttamente dalla mente del dio.
Così viene inscenato il dialogo immaginato da Senofonte nei Memorabilia, I, 2, 40-46, tra Pericle e il figlioccio Alcibiade, ma le parti sono di nuovo rovesciate: Zeus come Alcibiade fa le domande sul potere, la politica e la democrazia e Atena risponde come Pericle. Finché la dea crolla di fronte alla innegabile considerazione che anche il potere maggioritario può imporre il male e far valere gli interessi dei potenti con i mezzi della persuasione di massa. Atena si dichiara sconfitta dalla capacità affabulatrice del padre, ma non sa più quale sia la verità, allora Zeus chiama gli ultimi testimoni, Creonte e Antigone, che forse sapranno dare un messaggio inequivocabile.
Dal mondo senza tempo del Mito arriva Antigone trascinata dalle stesse guardie senza volto che hanno strappato Astianatte a sua madre e di getto, con la foga di chi ha sopportato fin troppo, uno sfolgorante Creonte parte all’attacco. Qui è Sofocle a portare la sua veemenza: è l’agone famoso sulle leggi non scritte da noi tradotto con l’intento precipuo di ridare oggi al linguaggio tragico antico la forza che doveva avere per il pubblico dell’Atene del V sec. a.C. Disobbedire in nome della φιλία è necessario per rimanere esseri umani. Ʃυμφιλεῖν ἔφυν dice Antigone: essere nati per la φιλία, ecco il messaggio inequivocabile che Zeus cercava. A questo punto Atena diventa una statua, non sa, non può relazionarsi con la dimensione emotiva ed affettiva, l’incontro la spiazza e la paralizza. All’opposto della conclusione a cui arrivava il Pilade di Pasolini, si sancisce ora il crollo della Ragione neo-illuministica.
A questo punto Zeus lascia uscire finalmente il coro e, prima di sparire per sempre nella nebulosa dei Miti, innalza il suo inno alla forza dell’essere più fragile e straordinario dell’universo, l’essere destinato al baratro della Morte, perché consapevolmente ad essa rivolto, e, citando Pavese dei Dialoghi con Leucò e il Sein zum Tode (essere per la morte) di Heiddegger, l’essere che nel limite della sua angustia e nella consapevolezza del suo non senso trova il valore del vivere. Press’a poco con le stesse parole che Albert Camus usa per descrivere il suo uomo assurdo, Sisifo,
Je laisse Sisyphe au bas de la montagne! On retrouve toujours son fardeau. Mais Sisyphe enseigne la fidélité supérieure qui nie les dieux et soulève les rochers. Lui aussi juge que tout est bien. Cet univers désormais sans maître ne lui paraît ni stérile ni futile. Chacun des grains de cette pierre, chaque éclat minéral de cette montagne pleine de nuit, à lui seul, forme un monde. La lutte elle-même vers les sommets suffit à remplir un cœur d’homme. Il faut imaginer Sisyphe heureux,
Zeus sembra “scoprire” finalmente la forza dell’umanità:
Gli uomini sono sempre in cammino.
Vivono con ostinazione l’assurda pena di Sisifo che ridiscende ogni volta quel declivio della collina, riprende il masso e lo riporta sulla cima, da dove, di nuovo e sempre rotolerà, giù in basso. E in questo movimento apparentemente circolare, insensato, essi in realtà… procedono…Perché l’assurdo del loro esistere non è nella morte come pensavamo noi e come forse essi stessi pensavano e ancora pensano. L’assurdo è invece proprio nella inspiegabilità e nella fatica del loro vivere senza un perché. L’assurdo è nella loro fragilità che diventa ricchezza, nella forza che li associa e li dissocia gli uni gli altri in invisibili vincoli d’amore e di odio; nell’isolamento e nell’incontro, nell’ambiguo potere che hanno di distruggersi a vicenda ma a vicenda salvarsi.
Nell’interazione di antichi e moderni, nella polisemia della parola poetica che si articola al di là del tempo e dello spazio, abbiamo condotto la nostra interpretazione, elaborando, anche attraverso la ricerca di musiche, coreografie, luci e proiezioni artistiche, un testo teatrale per così dire “post-moderno”, allusivo, ibrido, meticcio, distopico e discronico. Con l’unica certezza che la parola φιλία assume i significati di amicizia, legame affettivo tra i membri della famiglia e non solo, un legame che comporta cura dell’altro, sostegno reciproco, assunzione di responsabilità e abbiamo sintetizzato queste molteplici accezioni nel sottotitolo La legge non scritta, come a dire che la Φιλία è parte fondamentale e imprescindibile dell’essenza umana. Questa, secondo noi, non si risolve affatto, come ancora molti preferiscono (irresponsabilmente?) pensare, nella definizione hobbesiana di Homo Homini lupus, ossia di un individualismo e una violenza “naturali, bestiali” da contenere con le regole del Contratto e del Controllo sociale, ma si esplica piuttosto in una capacità di comunione e relazione altrettanto naturale e istintiva, forse “assurda” perché non necessariamente orientata e finalizzata in termini religiosi e metafisici, ma spontanea. Certo che esiste il male e il dolore, certo che gli umani si invidiano, si danneggiano e si massacrano a vicenda, ma è solo a vicenda che possono salvarsi. Questo misterioso impasto dell’essenza umana affascina i poeti fin dall’antichità, suscita domande “tragiche” nel senso greco del termine, cioè senza risposta.
Di una cosa però siamo convinti: che la φιλία (in latino l’humanitas) si possa educare, si possa far crescere fino a dilagare, che essa possa invadere le vite dei nostri ragazzi anche e soprattutto grazie allo studio dei classici, delle scienze e dell’arte.
Annamaria Magi
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